65. Mentana

 MENTANA (150 m slm – 21.286 abitanti ab. detti mentanesi), sorge nella valle del Tevere, in prossimità dei monti Cornicolani. È sede del Museo Nazionale Garibaldino.

 
DIALETTO (dialettu mendanese)
Il Dialetto sabino riguarda sostanzialmente la Provincia di Rieti, e qualche comune della Campagna romana nelle sue vicinanze, ma ha anche sconfinamenti nella vicina Provincia dell’Aquila a ridosso del confine con il Lazio e nella stessa città de L’Aquila. Già alle porte di Roma: a Mentana, Monterotondo, Palombara Sabina, Montecelio, Tivoli si parla il sabino, o come dicono in alcune parti della Sabina, il sabinese. (https:////it.wikipedia.org/wiki/Dialetti_del_Lazio)
Nel 1990, Salvatore Vicario in “Fascina” affermava:  
“Parafrasando l’annunzio (…) ‘È morto il Re, viva il Re!’, oggi noi, mentanesi degli anni ’70, potremmo dire: ‘È morta Mendana, viva Mentana!’. Eh, sì, la vecchia città, con le sue tradizioni, con il suo ‘dialetto in ’ndo’*, come celiavano gli abitanti della vicina Monterotondo, è definitivamente scomparsa. Il dialetto mendanese non si ode più quasi nemmeno negli ultimi locali; dovunque si parla la madre lingua italiana che affratella nativi ed immigrati”.
(* Il dialetto è caratterizzato da questo modo di pronunciare la “t” per cui non si dirà Mentana e mentanese, Mendana e mendanese; e i cittadini di Moterotondo, riferendosi all’appropriazione del famoso catenaccio di Porta San Rocco, li apostrofavano con un: pusa l’ossu, mendané!)
 
1. I vocabolari e le grammatiche
Pietrollini, Gino, Mentana. Parole, posti: basto, carretto, giogo, barrozza, legature, S. l., s. n., stampa 1999 (Montecelio. Veligraf)
Vittori, Goffredo, Cronica mentanese (e altro) in versi mentanesi, Bariletti Editori, Roma, 2000. Con appendice di Glossario (nelle mie fotocopie è incompleto farselo mandare in fax dalle biblioteca)
Gino Pietrollini in premessa al suo libro dichiara che il suo “è il tentativo di trascrivere una lingua parlata che praticamente non ha mai avuto una versione scritta, eccettuata qualche poesia”. Precisa anche che alla raccolta di vocaboli hanno collaborato Goffredo Vittori, a sua volta autore di un Glossario inserito in appendice al suo libro Cronica mentanese (e altro) in versi mentanesi; Lorenzo Cappabianca, Goffredo Coltella, Adalgisa Moscatelli, Aurora Marfisa Papa, Ida Salvati, Clelia Stocchi, Lucio Valentini e “un po’ de revvanzi de Mentanisi llà pe’ la piazza”. Pietrollini aggiunge ancora che le parole comprese nel suo testo “non si possono datare in antico (…), mentre la fine di questo parlare può essere fissata intorno al 1960, con la diffusione della televisione e quando la scuola faceva sentire i suoi effett. Anche la grande immigrazione subita dal territorio ha contribuito alla scomparsa della parlata. Alla data della pubblicazione svariate parole sono già morte, sia perché a volte manca l’oggetto a cui si riferiscono e sia perché sono state sostituite da altre italiane o straniere”. A questo proposito nella parte finale del volume l’autore inserisce degli interessanti articoli (illustrati con disegni) sui termini: Basto, Carretto, Giogo, Barrozza e Legature, frutto di un’indagine da lui svolta sia in ambito locale che in diverse altre regioni.
Una selezione di parole dal libro citato: aah! (comando alle bestie per andare avanti; arri là, per allontanarlo; arri qua, per farlo avvicinare, leeh, per fermarlo), abbacchiara (grossa cesta o sporta, lunga circa m 1,20, alta cm 50 e larga altrettanto per portare abbacchi e altro), affonnacappelli (bastone di spino bianco, usato per affondare le vinacce durante la fermentazione), ala (varietà di pesche di grosso taglio), allingontro (d’altronde), ammella, ’mmella (albero di giuda; ammella bianca: storace), ’nnacquarditu (annacquato; te’ lu cervellu ’nnacquarditu da le femmine), ara (aia), attaccarame (telaio in legno con tre assi orizzontali e due verticali ai lati; vi si appendevano tutte le pentole, tegami, coperchi, padelle e altro), bagarinu (chi ha il banco al mercato), bagnoli (impacchi fatti con uno straccio imbevuto di acqua e sale), barba dei frati (plantago coronopus, uno dei componenti della misticanza), barbaraschi (verbasco, pianta usata per fare le scope), barco’, barcone (balcone; anche il mucchio di covoni posto vicino alla trebbia in attesa di essere lavorati; il grano caduto si chiamava terrusu), bardella (grossa sudata; specie di sella sprovvista di arcioni), battecca (bacchetta; del maestro ma anche uno dei raggi dell’ombrello), bene a mamma (palla di neve, viburno), bilancia, bilancio’, bilancionittu (stadere, la prima capace fino a kg 15 circa e la seconda a kg 150, la terza intermedia ai due), biscotto de le crapi (evonimo o berretta del prete o fusaggine; così la chiamano a Castelchiodato), boscica (vescica del maiale, ben lavata e gonfiata, all’interno della quale viene colato il grasso fuso dello stesso: lo struttu), bottinu (piccolo cunicolo di captazione; anche serbatoio di regolazione), bumba (richiesta di neonati di bere), burrancichi (borragine), calata (tramonto del sole; pronuncia che indica un dialetto: da la calata lu so’ reconosciutu che era marchiscianu), cancellittu (cancelletto; trappola per uccelli costituita da una larga tavola tenuta inclinata con un bastone a cui è legato un lungo spago. Il becchime sparso attira gli uccelli e un ragazzo, non visto, tirando lo spago, la fa cadere schiacciandoli), cannelle o cannee (ombrellifera che cresce lungo i fossi, simile al sedano, ottima per le insalate), capezzagne (le estremità restanti, dopo aver arato un campo, in senso longitudinale, dove voltava il bifolco e che vanno lavorate trasversalmente), capugavetta (capo degli operai addetti alla trebbiatura fatta con gli animali), cardìni (piante o ricacci del carciofo), cargarinu (ragazzo che aiutava il barrozzaio nel lavoro di carico dei covoni di grano),  carrapo’, carrapone, carapone (baratro, burrone; discarica pubblica: e tu iettala pe’ lu carrapo’), carriare (trasportare cose o persone con qualsiasi mezzo), cartata (merce avvolta nella carta in genere gialla fatta con la paglia), cartoccia (arnese a cucchiaio per prendere farina o granaglie; attrezzo per fare buchi nel terreno), cassamacchia (gomma per cancellare), cattapo’ (depressione del terreno), cattu (gatto; si chiama così un tratto di terreno saltato erroneamente dall’aratro), cavallettaru (persona che con l’ausilio dei cavalli o muli o asini portava la legna dal bosco all’imposto), cegnitora (coltivazione della vite a filare con le canne; una canna verticale sostiene la vite; poco distanti altre, sempre verticali, sostengono il capo, poi un’altra canna messa in diagonale collega le precedenti), cella (organo sessuale femminile; cellu, quello maschile), chiavellinu (mazza snodata per battere fave e altri legumi), chiuvellu (doppio anello in pelle di bufala ritorta, collega la concia al timone della barrozza), ciaula’ (chiacchierare delle donne), cinquenervia, recchia de pecora, settenervia, settevene (piantaggine; le foglie masticate venivano usate come cataplasma. Lo stelo, battocchiu, era usato per legare le viti e per infilare le more: le sfirze; co’ lu battocchiu ce ’nculavanu le moriche), ciriolanti (persone viscide, subdole, come anguille), ciscu là (ordine dato a un maiale per allontanarlo, non mandarlo via), cortellu a pettu (coltello a due mani per lavorare il legno, usato per sagomare zappe, vanghe, ecc.), coscì (così, riferito a cosa o azione vicino a chi parla), cozza (crosta di sporco), crapistare (calpestare), crastra (fai un taglio alle castagne prima di metterle ad arrostire), crena (incisione fatta dal calzolaio sul bordo della suola, dove poi cucirà a mano; in tal modo la cucitura non tocca il suolo e resiste di più), cucciulapentula (lucciola), culopuzo’, culopuzone (persona messa carponi, a pecorina), cumera o gomera (vomere, parte dell’aratro che taglia orizzontalmente il terreno), daemmo, daevo (demmo; dovevo), dattetempo (vai piano), dessaiò, dessassù, dessatturnu (per di giù; per di sopra; attorno vicino a te), ène (è; de chi ène stu fazzolittu?), enno (andando), fardella (porziione di una balla di fieno), fazzolittu de scorza d’arberu (fazzoletto grande di tessuto robusto usato in campagna), ferritti (piccole mezze lune in ferro che venivano inchiodate alle punte e aitacchi delle scarpe per ridurne il consumo), fietta (sfilza o treccia realizzata con le foglie delle cipolle o degli agli), forma, forme, formetta (fonte, fontanella; tipo di fonte primitiva costituita da un semplice canale scavato nella terra), frafralle (farfalle), frommiche (formiche), gnoffa (persona impacciata, goffa, insicura), graffiuni (varietà di ciliegie), granturcaru (campo di mais), igniaula’ (termine mentanese che significa dar fuoco al canneto per bruciare le foglie. Dal lat. ignis, fuoco, e aula, canna o canneto), lappeiò (la andando giù, là per giù), lecia (lenta: la carge (calce) è lecia, ce si missu troppa acqua), licenzia (mattone, tegola o altro che si stacca dal muro), lindiera (ringhiera), lippe lappe (paura; quannu se ’vvicinaru li carabbigneri lu culu ié fece lippe lappe), livina d’aiu (spicchio d’aglio), lure (faville), mancinula (attrezzo per rompere la parte legnosa della canapa e del lino), manibona (mano destra; tu tette sempre pe’ la manibona), martufu (abulico o persona che sembra tale), merda de lu cuccù (formazione di sostanze mucillaginose simile alla resina sul tronco di alberi), morgattare (richiamo della mucca e del vitello per riavvicinarsi), morica de fratta (mora di rovo), ’nnamarolu (ramaiolo), ’nsanguato (era così detto un animale quando il genitore si era accoppiato con uno stallone o una fattrice di razza), ’nsemata (coltivazione nella quale sono entrate piante estranee), ognatura (sporgenza dello scalino o della copertina entrambi di marmo, l’ultima ha un solco per impedire all’acqua di andare sul muro e obbligarla a grondare), ossu birbu (osso fisicamente inesistente, veniva citato dai genitori quando il figlio apprendeva a lavorare e non aveva tanta voglia: lavora lavora che ’na voti che te s’è ruttu l’ossu birbu nun te fa più male), ossu pazzillu (malleolo), piegaturu (parte della vite che viene piegata e legata orizzontalmente da dove si svilupperanno i tralci dell’anno), pieme, piemara (acqua ruscellante che porta con se terra ed altro, originata da forte pioggia; lascia un deposito di di limo e fango), porcinu o porcino (terreno con notevole prevalenza di argilla, facile da lavorare quando bagnato, con il secco fa grosse crepe ed è particolarmente duro), prosperi (fiammiferi; i fiammiferi svedesi o i Minerva si chiamavano li prosperi de lu signore), ramata (rete metallica), rasa (parte di un vigneto delimitato da due viali orizzontali. Indica una coltivazione uniforme di altezza, dove non emergono alberi), refota (serbatoio di acqua usato per il funzionamento di una mola, controllato da una chiusa), rementuare (ricordare, riparlare; quanno rementua de la guerra me se ’ngriccia la carne), scanìtu (tolto completamente), scellecare (togliere le ali o ascelle, ma anche una forma di stiramento, strappo muscolare), sciandò (shantung, varietà di seta dall’aspetto irregolare), serpa rospara (biscia d’acqua), sfarratu (mangiato con voracità), sfiancu (si dice di un cavallo o asino che non ha bevuto), sfrattarola (specie di roncola, con lama lunga, usata per tagliare il canneto o le fratte), spicciaturu (pettine), spiga bruciata (le spighe rimaste sul campo dopo la mietitura), spighetta (lavanda), spullare (mondare la ginestra; fig. vincere tutto il denaro di un giocatore: lu so’ spullatu a carti), staiu (staio, antica unità di misura per aridi. Contratto tra un fabbro, ferraro, e un contadino in cui il primo si impegna a ferrare l’asino o riparare l’aratro o altro, mentre il secondo corrisponde una quantità di grano, 60 kg circa), streccia’ (sciogliere le viti e le canne rompendo le legature di ginestra o salice), stregarola (tavola con ferri trasversali dove veniva strofinato il covone per liberare i semi), taio e taietta (taglia e taglietta; un’asta di legno veniva divisa in due: quella madre restava al salumiere, pizzicarolu, l’altra al pastore che forniva il formaggio e la ricotta; venivano unite al momento di segnare la fornitura con un coltello, così ognuno dei due aveva un testimone, il pagamento veniva fatto in base alle incisioni comuni), teca (una delle due valve del baccello), tiraturu, tiraturittu (cassetto, cassettino), vennegna (vendemmia), ventula (ventaglio per il camino costruito con penne di tacchino per accelerare la combustione), zaccattavula (tempella, attrezzo composto da una tavola di cm 50 per 25, con manico e due maniglie mobili in ferro, tenute da due grappe, usato nel periodo pasquale quando non si possono suonare le campane), zammucu (sambuco).
 
Le tradizioni popolari di Mentana, di L. Cantagalli e A. Valentini si conclude con un Glossario dal quale abbiamo estratto i termini: capitucciuli (capriole, capitomboli), cargara (mucchio di legna o di cose), cunnula (culla), gamarruni (mucchi di pula), jannetta (fermaglio per capelli), joppe (giù, andare giù per), mazzi (grosse budella, intestino crasso del maiale, culo, fortuna), mùnnulu (attrezzo per mondare il piano del forno), ppiccicaocchi (dente di leone, soffione), pirulapendula (altalena), rattacaciu (grattugia per il formaggio), reccavallà (accostare la terra alla base della piantina), recciaccarià (ripassare a controllare il vigneto dopo la vendemmia per cercarvi i grappoli di uva lasciati dai vendemmiatori), saccocciò (materasso di foglie di granturco, sacco per filtrare il vino), scujati (sfessati, caduti per lo sforzo e la fatica, rimasti sotto il peso), stramone (fieno ricavato dalla falciatura delle stoppie), zimpedecche (molto lungo, che non finisce mai; eterno).
Una particolarità infine segnalata dagli autori del libro appena citato riguarda il termine li ciociari che rimase affibbiato con un certo disprezzo, unitamente a quello di foresteracci (e poi passato in eredità di padre in figlio fino alla terza ed anche quarta generazione) a quei braccianti che stagionalmente scendevano dalla bassa Marsica fino a Mentana (e che poi si stabilirono in loco, sopportando i rigori invernali al riparo di capanne di canne e acquistando piccoli appezzamenti di terreno), provenienti per la quasi totalità dai paesi montani alle spalle di Subiaco.
Ancora nel libro di Cantagalli e Valentini troviamo l’indicazione della capacità dei recipienti delle cantine mentanesi: la botte (1.100-1.200 litri), la caratella (550/600 litri), lu caratellu (200-300 l), lu barilozzu (70-75 l), lu barile (50 l), lu mezzu barile (25 l), lu quartarolo (12-15 l), le cupelle (dai 2 ai 10 l, usate quasi solo per il trasporto del vino in campagna). I “Lavori agricoli” costituiscono un’altra sezione di notevole valore documentario del libro. In essa vengono descritti i cicli di lavorazione (e le attrezzature connesse) del grano, dalla semina alla trebbiatura, del granturco, delle fave, dei fagioli, dell’ulivo, dell’uva. Tra le principali qualità d’uva bianca da vino negli anni precedenti la seconda guerra mondiale: lo Marchicianu (verdicchio), lo Francesittu, l’Acquapennente, lo Cacciadibitu, lo Gobbagorbe, lo Moscatu picculu. Tra quelle rosse: il Morone e il Garignano. La migliore tra le poche qualità di uva da tavola (seguita dalla Vernaccia e dalla Salamanna) era considerata la Malaga, così celebrata in una Sagra dell’uva degli anni Trenta: …la malaga di Mentana / che rinfresca e che risana / la memoria indebolita / evviva l’uva preferita.
Ma i lavori nelle vigne erano duri e bestiali, come ricorda A. Massimi nella sua poesia “La vennegna”: A repenzà a la costa dei Quartacci / a tempu de vennegna specialmente / lo tevo ammette mò sinceramente / che se viveva come animalacci. // Muli, cavalli e tanti somaracci, / faceanu spola continuamente / lu giornu se passava interamente / co’ la fanga ’nzinente a li porpacci; // le bestie se torceanu poracce / pe’ via de le piaghe a lu schinale / che paru un sugnu stranu a repenzacce. / Era ’na borgia tipica infernale…
“L’allevamento” è un altro interessante capitolo del libro citato, in cui si affronta quello degli animali da cortile, dei buoi (Li bbovi, allevati a Mentana, un tempo da quasi tutte le famiglie e destinati ai lavori dei campi), del maiale (Lu giorno più bellu è quanno a casa mmazzemo lu porcu; così a sopresa si sentì rispondere da un comunicando il prete catechista alla domanda: qual era il giorno più bello della vita, invece della risposta scontata: la prima comunione).
 
2. I proverbi e i modi di dire
Monteretunnu anticu, / ce va cént’anni e non te fa’ ’n amicu; / e se pure te avissi da fa, / non te ’nvita mai ’a casa a magnà (A Monterotondo la gente è avara e difficilmente fa amicizia: il detto proviene da Mentana, il centro più vicino a Monterotondo)
Da Mentana. Parole, posti… di Pietrollini: chi ara a drittu ara a frittu (chi vive onestamente non conclude nulla), bombardamentu de Mentana (avvenne il 3 giugno 1944, alle 7,30 circa da parte di caccia bombardieri inglesi. Furono lanciate 8 bombe da 250 libbre che caddero, causando 72 vittime civili), me pare ’n cavallu der governo (riferito a persone grasse; doppu ’na curza de cavalli unu de Montrotonno eva dicenno, come parlanu issi: è viro cà vintu le cavallu de Pelle Pelle, ma quillu de Fondò, ieva a le tacche a le tacche), meio ’n ceculu (foruncolo) a ’na chiappa che ave’ a che fa co’ quillu; nun se te’ lu ciciu ’n mocca (non mantiene il segreto), dà de picciu (menare).
Da Le tradizioni popolari di Mentana, di L. Cantagalli e A Valentini: Canta lu callu a patullu, acqua a lu sgrullu; La donna che mena l’anca se nìè puttana pocu ce manca; Ma gna e fatte grossa, pija maritu e ruppije l’ossu; la donna da marità ’ntreccia e streccia, la donna maritata ’nciuffa e tocca; Montrotunnu, strittu de spalli e largu de funnu, Mendana, larga de spalli e stretta de tana; Come lu Palommarese che diceva: “Lo meu e lo meu; lo teu è lo meu e lo teu”; Latte e vinu, veleno finu.
 
3. I toponimi e i soprannomi
Toponimi segnalati in Mentana. Parole, posti: Acqua Puzza, Allia (il fosso di Settebagni), Ara Cacamele, Arboritu (albereto; località sul Colle della Mattonata), Baronci (uno dei vecchi nomi del Casale Manzi), Burgu (rione di Mentana lungo la via 3 novembre), Caprarecce (zona alla sommità del bosco di Valle Cavallara), Capu le Prata (località dov’è il fontanile omonimo o di Formellucciu, ora Villa Fiorita), Casarinu (zona adiacente, verso ovest, a piazza Crescenzio, fuori dalle case, dove un tempo venivano svuotati i vasi da notte, ’rinali, e dove si cacava, ’nzomma era ’n cacaturu; pò le quaje che ci stevanu), Castelchiodato (tenuta di 597 ettari, annessa a quella di Mentana; già dei Savelli, acquistata dai Borghese per 100 mila scudi. È una enclave tra i comuni di Monterotondo, Palombara Sabina e S. Angelo Romano; gli abitanti sono chiamati Castellani), Catenacciu (serratura pesante per cantine. Verso la fine del 1800 in risposta ad un furto subito dai mentanesi, si trattava di un osso di San Primo, fu preso a Monterotondo il catenaccio della Porta di S. Rocco (da allora issi ce dicu: reddaetece lu catenacciu; nui glie risponnemo: e vvui pusete l’ossu). L’ardita azione fu compiuta da Minicuccio Fiorenza detto da quel giorno de Catenacciu. Al Museo Garibaldino esiste il catenaccio della Porta S. Rocco, incendiata dai garibaldini, donato dal comune di Monterotondo), Cianfroni (località dei Casali), Cretuni (Cretone, frazione di Palombara Sabina), Immagginella, ’Mmagginella (edicola religiosa dedicata alla Madona, vicino al posto dell’attuale bottino alto dei Casali di Mentana), Mattonata (località di Mentana, posta in luogo elevato con pavimento di mattoni, usata come aia per trebbiare o battere granaglie), Molimentu (Monumento o Ara Garibaldina), Pennecchia (nome esatto del Monte Pellecchia, errato sulle carte dell’IGM), Sballata (località sulla via di Monterotondo), Spanneturu (località di Mentana dove si spandevano i panni, attualmente vicolo delle Mura). Ed ancora crebbero a dismisura abitazioni nella seconda metà del novecento a: San Giorgio (da un’antica chiesa, oggi inesistente, dedicata al santo), la Rocca. lu Fornacione, la Sargiatella, Le Rimesse, Li Frati e lu Tinellone e poi: Villa Fiorita, “Mazzatora, Vigne Nuove, Casali, Romitorio, Tor Lupara e Santa Lucia.
 
Vittori, Goffredo, Cronica mentanese (e altro) in versi mentanesi, Bariletti Editori, Roma, 2000. Con appendice di soprannomi. In “Li soprannumi” A. Massimi allinea in 5 sonetti numerosissimi nomignoli mentanesi. Eccoli:
Lu Sciacquaru, Urzubbiancu, Cuccioletto, / Gattubisciu, Sciamanna, co’ Cascittu, / Culucottu, Froscione, e Malloppetto. // Bacco, Bembè, Pacchetta, co’ Richillu, / Palittu, co’ la Corbe, e Cuccamittu, / Scarginu, lu Cafone, co’ Pizzillu. /// Carnera, Pagnottella, Pulentone, / Spaccasarduni, Cangarà, e Fischiuttu, / la Sagna, Magnafocu co’ Piccittu, / Ciucciulupì, lu Nibbiu co’ Luscone. // Marcuccetto, Rocchittu, Giuvannone, / Ciricipò, lu Cane, co’ Spacchittu, / Caramella, Rangiaru, Lorenzittu, / Cuccanari, Mazzetta, Cocozzone. // Crucchiupillu, Focaccio, Biastimella, / Paradisu, lu Scafu, Catenacciu, / Gnisciunu, Italu Bellu e Giacomella. // Lu Porcu, Mattachella, e lu Piranu, / Biascittu, Camisciola, co’ Pippacciu, / Rocchettello, Peppetto e l’Africanu. /// Fermalopiove, Sfreggia, lu Mastaru, / Peppelacchè, Bardella, co’ Mozzittu, / lu Cinese, Tebbante, Giuvannittu, / Barzillai, Giggione, e lu Circhiaru. // L’Omovecchio, Baffetto, lu Ciociaru, / lu Fungu, lu Cumpà Sarvatorittu, / Mastrusanti, ’Ndù, Curritorittu, / Gibbettò, Ciancanella, e lu Bottaru. // Cusà, lu Scandriese, Pentolino, / lu Nespulu, Pipittu, Balla, Balla, / lu Stradinu, lu Sguinciu, e Cacalino. // Cannella, Lorenzone, co’ Birbetta, / Nippa, lu Mutarellu, e Sora Lalla, / Merluzzu, lu ’Mbunitu, e Paparetta. /// Doracacate, Bosco, e lu Lapone, / lu Moro, Bacarozzu, e lu Riccittu, / Cirillu, Santarellu e Parissittu, / Baffidoro, Stramaccia, co’ Fargione. // Pasquetta, Guardancerqua, Rampicone, / lu Castellanu, co’ Giacomuccittu, / Lilletto, Cappuccè, lu Chirichittu, / l’Ursu, Storre, Pichesse, e Pepparone. // Pellenera, Macanza, e Maumetto, / lu Forcese, Bertollo, e lu Rotinu, / Pappaggiarra, Stecchetti, co’ Concetto. // Lu Beccamortu, Lollo, e lu Bavusu, / Rinale, Giggiarello, e lu Burrinu, / Pietracciu, Bastianellu, e lu Pelusu.
Gino Pietrollini nel suo Mentana. Parole-Posti… ci fornisce una lista di nomi di buoi, da cui scegliamo: Artavela, Barcarolo, Battaglina, Bellapadrona, Bellavita, Bersagliera, Braccianese, Brigante, Brignoletto, Caleriera, Capoccetto, Chiarastella, Cittadina, Colonnello, Delicata, Disertore, Facciabella, Fariseo, Morichella, Nottuletta, Pacianella, Rsignolo, Screpante, Signorina, Stiratrice, Tobrucche, Zampacorta.
In Cronica Mentanese, G. Vittori fornisce un elenco de “Li Cognumi mentanisi da prima del 1900”. In questo elenco sono evidenziati quelli appartenenti aa alcune famiglie da almeno 4, cioè: Agrestini, Aloisi, Belardi, Cantagalli, Cola, Damiani, De Silvestris, Di Cola, Di Pietro, Erbori, Ferraresi, Ferri, Lelli, Lucci, Mancini, Marocchi, Midei, Moretti, Onori, Paolocci, Persiani, Renzi, Riganelli, Sammasimo, Scipioni, Sebastiani, Tardella, Tedeschi, Tempesta, Tortella.
 
 
4. Canti – filastrocche-indovinelli – giochi- gastronomia- feste&sagre-altro

Salvatore G. Vicario ricorda in “Fascina” due tradizioni “Li morti” e “La notte della vigilia dell’Ascenzione”:
Li morti”- veniva indicato con questo termine il giro che i ragazzini facevano la sera del 1° novembre per le case dei parenti e conoscenti, dai quali ricevevano fichi secchi e ciambelle a cancello (specie di ciambella foggiata a forma di stella e fatta con farina, olio e sale.
“La notte della vigilia dell’Ascenzione” – i ragazzi andavano nelle grotte e nelle cantine a raccattare bacherozzi; indi, a sera, li posavano sui marciapiedi del paese e incollavano loro una candelina accesa sul dorso; il calore li costringeva a correre mentre i bambini cantavano in coro: Curri, curri, bacarò, / che dimani è l’Ascenziò / e se tu nun currerai / tuttu lu culu te bruscerai. / Curri, curri, bacarò, / che dimani è l’Ascenziò.
Processione del Venerdì Santo (le campane tacciono e per un’antica tradizione sono i ragazzi del paese con il fracasso delleraccataule a chiamare la popolazione ai sacri riti)
Palio dei Rioni (a fine giugno oltre a un corteo storico in costume ha luogo una gara tra i rioni con la tradizionale corsa dei somari)
 Sagra dell’uva (a fine di settembre)
1° Sagra dei Maccheroni a Centonara 11-12-13 giugno 2010 1° Sagra dei Maccheroni a Centonara con il patrocinio: del Comune di Mentana, Provincia di Roma, Regione Lazio e Associazione Culturale Lu Palummaro – e-mail: www.lupalummaro.it
 
4.1 Canti
Ecco alcuni stornelli tratti da Le tradizioni popolari di Mentana, di L. Cantagalli e A Valentini:
Statte zitta brutta sgrullapuci / che li somenti come li spinaci / li più picculi so’ come le nuci.
Deh slacciate so busto (bis) / falle combarì se du’ viole / lo veterai lo paradiso aperto / e fai sentì l’odore a chi lo vole.
Statte zitta callina spelacchiata / statte zitta che nun sai cantane / e canta mejio un asino che tune.
Fiore d’ortiga / quanno co’ s’occhi me dai ’na guardata / me fai resuscità da la morte a la vita.
Fiore de ’nsalata / de la finestra tea vorria esse la pietra / ’ndo ce lo tenghi er petto appoggiata.
Fiore de pisello / quanno te vedo che co’ l’atri parli / ’n mezzu ar petto mio chiodi e martello.
Fiore de nocchia / se so’ seccati l’arberi a la macchia / coscì se seccherà la lengua vostra.
Fiore de granatu / ritorna a refa’ la pace scemunitu / nun è più tempu de stà rencagnatu.
Da Le tradizioni popolari di Mentana, di L. Cantagalli e A Valentini, riportiamo questo passo dedicato ad una ricorrenza molto sentita dalla popolazione:
Alla vigilia della Pasqua Epifania il 5 gennaio per le vie del paese si sentiva risuonare il suono dell’organetto che accompagnava un coro di voci maschili che cantavano i zuffiatelli (ossia cantata alla buona, infatti zuffià significa, soffiare, sbuffare). Zuffia, zuffia e zuffia / ne venemo da Cacaluffia. / Da Cacaluffia ne venemo / li zuffiatelli nui cantemo! // Dimani è Pasqua / la cima dell’acqua / sopra a la cima / la rosa costantina / sopra a la rosa / la perla preziosa / sopra a la perla / la bianca palombella. / Sopra a la palomma / l’aquila ritonna, / sopre all’aquila / lu fiore de Napula / sopre a lu fiore / lu ddominu maggiore, / sopre a ddominu / le braccia dell’omminu. / Sopre a le braccia / Gennaru quanno caccia, / Gennaru quanno cacciò / bbona sera signor padrò! // Dimane è Pasqua / e benedetto sia / in questa casa / ci stà Santa Maria / e ci stà Ddio / co’ tutti li Santi / ci stà Mattè / e co’ santu Bartolommè! // De chi sò ’lle cause che pennu a quella torre / sò de… chi vò la bella moje / (oppure) de chi sò ’lle cause che pennu a ’llu cannitu / sò de… che vò lu bellu maritu / bella la moje, più bellu lu maritu / rizzate… e portace lu spitu! // Portemo ’n somarellu che nun potemo trascinà / facce ’n pò de cortesia pe potellu ristorà. / Iho, Iho, Iho…
Fatto il verso dell’asino tutto tace e i cantori alzano gli occhi alla finestra da dove dovrebbe affacciarsi il padrone a fare loro la “cortesia”. Se il padrone si fa attendere riprendono in coro: Se ssi fatte le ciammelle / porta jo quelle più belle. / Se ssi fatti li biscottini, / nun capà quilli più fini, / se ssi fatti li mostaccioli / porta jo quilli più bboni, / se ssi fatti li pampapati / nun capà quilli bruciati! / Guarda sopra a la cassetta / che ce trovi la bbocaletta. / Guarda sopra a lu cassò / che ce trovi lu bbocalò! / Jamo jo ppe le grotte / ce capemo la mejo botte. / Se ssi mmazzatu lu porcu / daccene ’n tocciu, / se si fatta la porchetta / daccene ’na fetta / se si fatte le sargicce / nun capà quelle più micche! // E portemu ’n somarellu / che nun potemo trascinà. / Fatece ’n po’ de cortesia / pe’ potellu ristorà! / Iho, Iho, Iho…
Se ancora nessuno si affaccia alla finestra il coro continua: Tira tira tramontanina / sopre le spalli ce piove la brina / tira tita tramonta nella  / ce refresca le budella.
Se il duro padrone di casa non si commuove e non si affaccia a confortarli i cantori concludono indispettiti: tanti chiodi ssa a ssa porta / che lu diavulu te sse straporta.
Si allontanano quindi imprecando contro l’avarizia e la spilorceria del padrone. Se invece, e quasi sempre s’affaccia qualcuno e promette qualche dono, concludono: Ce l’ha fatta la cortesia / viva Pasqua Bbefania! / La cortesia ce l’ha fatta / viva via la Santa Pasqua!
(…) I regali consistono in fiaschi di vino, in carne di maiale, in pagnotte di pane; raramente vengono dati soldi. (…) Questo canto notturno è veramente suggestivo e la sua origine si perde nella notte dei tempi passati.
 
Li Centonara sono un gruppo Folk Rock di Mentana in provincia di Roma che propone canzoni comico-demenziali in puro dialetto mentanese. La loro prima apparizione in pubblico risale al Motoraduno dei Nomentani nel 2003. Da allora l’idea di 3 amici (Scopettò, Gniciunu e Utu) si trasforma in una Band a tutti gli effetti con ben 3 chitarre (Utu, Er Patata E Patricche), un basso (e che basso…Scopetto’), tastiere (Gioventù), percussioni (Lu Befurgu),batteria (Pomatino), sax (Riccardo Pelù) e alla voce il mitico Fabio Priori (Gniciunu), fin dai primi esordi, leader indiscusso della Band. A Mentana il gruppo riscuote, da subito, un grande successo di pubblico. Dimostrazione vivente che, anche in una cittadina un po’ sonnolenta come Mentana, è possibile fare cose belle e divertenti e magari, come cantano nella canzone omonima “Li Centonara”… anche risvegliarla! Nel sito https:////www.myspace.com/licentonara sono registrati diversi brani tra i quali: Lu candidatu, Li Centonara, La tanica, Lu terrorista.
 
Ninna nanna: Fatte li sonni d’oro a ’sta cunnula d’oro / do’ è statu cunnulatu Sanzidoro (Sant’Isidoro); / tu ’ntantu lu’ nnanzichi e lu pupu se ’ddorme.
 
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
 
Tra le filastrocche mentanesi (ma analoghe sono comuni ad altre zone del territorio della provincia di Roma, citiamo: Nun piovì, nun piovì / San Giovanni stà a dormì, / stà a dormì su le piaghe del Signore / ferma l’acqua e venga il sole. // Pioviccica, pioviccica / lu culu te sse piccica / se ppiccia la cannela / lu culu te sse pela. // Caccia, caccia corna / dimani a revè nonna / nonna revenuta / caccia caccia corna cornuta.
Alcuni indovinelli maliziosi da Le tradizioni popolari di Mentana, di L. Cantagalli e A Valentini:
La signora stà sul sofà / lu maritu la va a trovà / je la tocca la pirimpella / je fa scappà la pisciarella (Risposta: la botte).
La moje de lu pecoraru / sta a sede a lu focolaru / se la reguarda e se la remmira / se cià lu pilu je lu tira (La conocchia).
Jamo a lettu bella paciocca / là faremo ’na cosa jotta / ’na cosa jotta nui faremo / pilu co’ pilu confrunteremo (chiudere le palpebre per dormire).
Tutte le donne tengu ’buscittu / pe’ tturallu ce vò ’n tappittu / né d’ossu, né de liva / ma ce vò de carne viva (il ditale).
Giro, giro ’nturnu a lu lettu / ce lu ficcu e ce lu metto / ce lu lascio stà mezzora / pe’ da gustu a la signora (lo scaldaletto).
Ce tengo ’na canestrella de galanteria / che esce dal cul e non è porcheria (l’uovo).
Chi la fa nun l’addopera / e chi l’addopera nun la vede (la cassa da morto).
 
Alcune imprecazioni: che te piasse ’n gorbo; te pozza pià ’n gorbu ’n bracciu a mammota; pozza fa tre atti (maledizione che consente al destinatario di fare tre gesti prima di morire),
Alcuni rimedi di medicina empirica tratti da Le tradizioni popolari di Mentana, di L. Cantagalli e A Valentini: Per le ferite da taglio. Si raccolga un germoglio di sfraina (aspraggine), lo si mastichi bene con i denti, si metta la poltiglia che ne risulterà sulla ferita e la si bendi. Non occorre ripetere l’operazione. Per reumatismi e lombalgie. Si fa riscaldare fortemente un mattone davanti alla fiamma del camino. Quando questo è caldo, lo si avvolge con un panno di lana o con una vecchia maglia e lo si mette sulla parte dolorante. L’operazione va ripetuta più volte durante l’arco della giornata e per due o tre giorni. Per il pus delle ferite e per i ceculi (foruncoli). Si applichino alcune foglie di rovo, oppure rumaciu (romice) nelle parti infette o sui grossi foruncoli e si fascino le parti malate. L’operazione deve essere ripetuta varie volte durante la giornata e per un paio di giorni. Per il raffreddore. Si faccia bollire un litro di vino unitamente a due foglie di alloro e due fichi secchi; quando il liquido sarà ridotto a un quarto, lo si tolga dal fuoco e lo si beva ancora molto caldo dopo avervi aggiunto un cucchiaio di miele. È consigliabile andarsene a letto dopo aver bevuto il vino caldo.
 
4.3 I giochi
Nel 2° sonetto di “Ricordi d’infanzia” Arturo Massimi ricorda che:
… quann’ero picculittu / e facevo le scole lementari / invece da studià li sillabari / me ne evo a giocare a castellittu. // A carichè, a pallina, a nicculittu / a cotto, a zirulò, a disperi e pari / a piripiribbozza, e in casi rari / a battimuru, a morra, o atru giochittu. // Quant’anni sò passati e pare ieri / che, pe’ la Rocca, e pe’ la Sergiatella / emmo branchi de latri, e carbigneri. // E queste nun sò frottule, o buatte / che quanno ’nse potea giocà a piastrella / emmo acchiappà li niti, o le misciatte (lucertole).
In “vita nova” A. Massimi ricorda i giochi dei grandi, dopo il lavoro e “lu porc’usu / da isse a’mbriacà ne’ l’osteria” dove:
lu giocu de la briscula, e tressette / e quillu scatenatu de la morra / li trasformava in tante cucuzzette. // E nun dicèmo de la passatella / giocu fattu de lite, e de camorra… / che, ’nse feneva mai de fa la bella. Mentre oggi (cioè negli anni sessanta): se fau magari quale pokerinu / giocanu a lu bijardu senza soste / ma… nun trovi più ommini de vinu. // Lo sporte, gite, e la televisione / cinema, balli au massacratu l’oste…
Un’intera sezione del libro Le tradizioni popolari di Mentana è intitolata “Giochi, divertimenti, passatempi” di cui vengono indicate nel minimo dettaglio le regole e le modalità e i luoghi di svolgimento: Eccone l’elenco: nnascunnirella,  Piri piri bozza (con la strofette che vi si recitava: piri piri bozza / scarica la coccia / la coccia e lu barì / piri piri pi), marrone, leppa o zirulò, zoppittu, spaccapicculu, buciu a retturà),
Tra i passatempi dei monelli di un tempo: ji pe’ sparaci, ji pe’ moriche (more), ji a recciaccarià (raccogliere i grappoli dimenticati dopo la vendemmia), ji pe nidi, ji pe’ spighe (spigolare), ji a mette le tajole (tagliole per catturare gli uccellini; altre trappole in uso per lo stesso scopo: la pietrarola e lu cancellittu), oppure giocare con lu circhiu o con le palline.
I giochi delle bimbe, più delicate e gentili, erano spesso impegnate (tenendo tutte l’indice puntato sul ginocchio di una di loro e toccandone uno alla volta) in conte tipo: piso e pisello / ’n colore così bello / ’n colore così fino / del santo Martino / la bella mulinara / che gioca su la scala / la scala del pavò / la penna del picciò / la bella zitella / che gioca a piastrella / co’ la fija del re / alza la gamba che tocca a te / alza la gamba che toc..ca a..te. Quelle più grandine facevano un cerchio ed una, toccando il petto delle compagne, sillabando ritmicamente recitava: Anglì ’nglò / tre calline e tre cappò / per andare alla cappella / c’era ’na ragazza bella / che sonava le ventitrè / uno, duve e tre. Altri giochi di bimbe con tiritera erano Sora Maria Giulia (Oh sora Maria Giulia / da ’ndo ne si venuta / arza l’occhi ar cielo / famme ’n zumpu / levate lu cappellittu / e dà ’n baciu a chi te l’ha ittu / scigni jo e da’n baciu a chi vo’ tu), Che bel castello (Oh che bel castello marcondilo ndilo ndella…), la Tenna, l’Ambasciatori. Era invece praticato da maschietti e da femminucce il gioco A murè, murè e consisteva nell’indovinare a quale frutto la “madre” (uno dei più grandi tra di loro, con in mano un grosso fazzoletto annodato e con i bimbi posto in semicerchio attorno) intendeva alludere, descrivendo le caratteristiche, l’altezza e altri particolari della pianta. Colui che rispondeva esattamente riceveva ad esempio quest’ordine: mena cucummarate, e con il fazzoletto annodato colpiva la schiena di quanti riusciva a raggiungere non appena la “madre” aveva dato l’ordine “mena!”. Per far cessare il rincorrersi la madre gridava: Murè, murè, jietta lu fazzolittu e ve da me. E poi si riprendeva con un nuovo indovinello.
 
4.4 la gastronomia
“Lo magnà” è il titolo di due sonetti di A. Massimi, di cui il primo è un repertorio della cucina mentanese degli anni cinquanta-sessanta:
Appena me rizzavo la matina / mi ’ matre sembre pronda poveretta / me faceva du’ pacche de bruschetta / o un ciocio fattu tuttu de farina. // Pe’ pranzu, ’na stesetta fina fina / appressu li fascioli, e un pò d’erbetta / de festa ’na sparuta brascioletta / e un pò de broto, fattu de vaccina. // E spissu maccaruni a centonara / e pulendate de bonamemoria / pangottu, frascarelli, e sagne a gara. // L’arca era sembre piena de pagnotte / pe’ cena, panzanella o la cicoria / du’ ciummache a lu spitu, e buonanotte.
Nel 2° sonetto, il poeta riconosce però onestamente che:
oggi pare un sugnu, doppu tantu / che, ciccia, pastasciutta, òva e formaggi / salumi, pesci frischi, co’ l’ortaggi / nasciu come un miraculu, ’n’incantu. // Frutta, latte, caffè, vinu, oju santu / liquori, durgi, e simili miraggi…
Marco Rosari nella poesia “La pulentata” in Guardenno arreto, rivelando l’ingrediente fondamentale della bontà dei cibi di un tempo: la fame, ricorda, estatico:
Pareva manna, cascata da lu callaru / la pulenta, sopre a spinatora / e nui atturnu, nun vedemmo l’ora / de cumincià, gummitu apparu. // Pareva più bella dell’aurora de na mmatina de primavera / e le sargicce, messe a schiera / stelle, che brillavanu ancora. // La ddore ce faceva girà la tera / la vista cessennebbiava / lu stommicu cessetrinciava / perché era voto da la sera. // A luvia, gnisciunu, più, parlava / e lu rumore solu, se senteva / de lu cucchiaru, che lestu eva / e la spinatora che sse lamentava. // Lestu che lu palatu nseccorgeva / de lu voccone che passava / e a lu stommicu volava / senza che lu sapore, se senteva. // A la fine, chi primu rrivava / come a na competizione / perché era tradizione / più sargicce se magnava. // Encora mo, me pija la tentazione / e quae voti areprovo l’esperienza / ma meccorgio dell’assenza / de la fame, epprovo delusione. // Evvedo, che allora, era apparenza / la bellezza e lu sapore / ma era lu fruttu de tante ore / de sopportà la fame co pacenza.
Frascarelli (farina di grano bollita, stesa sulla spianatoia, condita con sugo di pomodoro; simile alla polenta di mais)
Alcune ricette mentanesi dal capitolo “piatti, ricette, sughi e dolci tipici” in Le tradizioni popolari di Mentana, di L. Cantagalli e A Valentini.
Sugu de ciummache pe’ la pulenta. Si lessano le lumache, possibilmente le “vignarole” (che si annidano lungo i tronchi delle viti) perché più saporite. Si sgusciano mondandole degli intestini, poi si versano in un tegame nel quale in precedenza si è provveduto a fare un soffritto di olio, lardo battuto, dadini di pancetta e pomodoro o conserva unitamente a una fetta di cipolla. Si lascia bollire per circa un’ora, poi si aggiunge sale e un pezzo di peperoncino. Quando il sugo è pronto lo si versa sulla polenta, già “stesa” sulla spinatora. Aggiungere una manciata di pecorino e.. buon appetito.
Li maccaruni a centonara. Farina e acqua sono gli ingredienti per questa pasta. Si impasta la farina con l’acqua e dopo aver maneggiato la pasta per un certo tempo in modo che risulti compatta e omogenea, se ne stacca un pezzo riponendo da parte la massa più grande. Il pezzo viene maneggiato, poi spianato sempre con le mani. Lo si rompe al centro in modo da formare una ciambella. Quando questa non può più essere contenuta nelle due mani la si mette sulla spianatoia. Con entrambe le mani, poi, e a palme aperte si cerca di assottigliare il più possibile il cordone che formava la ciambella. Si continuerà a lavorare il cordone fino a quando questo non avrà un diametro di due e tre millimetri. Finito il primo pezzo di pasta se ne prende ancora fino alla fine. In genere la massaia mentanese mette lu callaru a focu contemporaneamente all’inizio della lavorazione della pasta, in modo da terminare quando esso bollirà. Si lasciano cuocere i maccaruni per cinque o sei minuti e si condiscono con ragù di carne di maiale oppure con sugo finto e pecorino.
Nello stesso capitolo citato sono descritti anche: Li frascarelli, le sagne, li stracci o pizzicotti, l’acqua cotta mentanese (“L’acqua cotta, lo pane spreca e la panza ’bbotta”), li brocculi soffocati, li frittelli co’ li brocculi e co’ li burrancichi (borragine), la pizza de pulenta, le ciammelle a cancellu, la pizza e le ciammelle cresciute, ciammelle e pizza de magru, ciammellotto, li pampapati, li biscottini co’ lo mele, li mostaccioli.
  
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
 
6. I testi di poesia
Arturo Massimi, è autore della raccolta poetica I confronti pubblicata nel 1966, con una puntuale Presentazione del prof. Massimino Bracci. Massimi nel sonetto “Il mio ritratto” si descrive così: “Serio d’aspetto, ma d’umor brioso / socievole con garbo a dismisura / preciso nell’insieme per natura / onesto, ed equo, e troppo fiducioso” Ed è proprio questo “tono umano (le parole sono di M. Bracci) , il quadrato buon senso, che ravviva e ci rende vicina questa poesia”, sia quella in lingua che quella in dialetto sia romanesco che mentanese. Il Massimi, secondo Bracci,
è inclinato a cogliere “attraverso un’ottica poetica i fatti della vita, anche i più comuni e abituali, sempre elevati ad un particolare palpito di umanità” (…) La produzione in dialetto è in special modo piacevole, satirica e nello stesso tempo conserva un suo nucleo riflessivo, a volte amaro. La vivacità di alcune composizioni come “La battaglia de Mentana”, ricrea a livello popolaresco e faceto la vicenda garibaldina, imprimendo una vena comica agli avvenimenti, scaricando la tensione in una sorta di leggenda popolare, ravvivata da un buon senso agguerrito e sornione.” Ciò accade anche nelle sue favole popolari in cui gli animali impersonano vizi e difetti umani e sono narrate da Massimi con l’accompagnamento di una filosofia semplice e arresa alle cattiverie, alle prepotenze, all’ingordigia degli uomini. La sua satira, annota Bracci: “è comprensiva e bonaria, smussando le sue punte polemiche nel sorriso dell’uomo che (…) più che condannare, vuole contemplare un mondo ricco di colore e di insegnamenti. La linea della poesia dialettale non s’allontana dalla migliore vena del poeta, perché anch’essa è sostanziata di una particolare umanità e di un buon senso che sono tramite di scoperte e di ammonimenti sempre utili e stimolanti.E infatti: Chi è avvezzo a soffrir, dolor nun sente / disse un poeta: e la raggione è chiara / defatti troppa gente / mena tranquilla, la sua vita amara / speranno, ed illudennose magara / a uno spirajo de luce evanescente. (…) La poesia di Massimi è degna d’una speciale attenzione, come un fenomeno isolato, ma ricco di valori e di stimoli, con una vena sentimentale e umana, che trova sempre il suo giusto tono nell’espressione pacata ma intensa, in una musica sempre interiorizzata e mai occasionale, con una disponibilità umana infine che ne allarga il campo della comprensione e il suo valore di incitamento morale e di messaggio umano.
Il libro citato consta di quattro parti: 1) Lodi, 2) Poesie in lingua italiana, 3) Poesie in dialetto romanesco, 4) Poesie in dialetto mentanese. Naturalmente noi indugeremo su quest’ultima in cui emergono: i “Ricordi d’infanzia”; “Li soprannumi”; “Lo sapè” (lo studio); “Vita nova” (le nuove generazioni); “Vantaggi e svantaggi” (naturalmente del progresso); gli “Usi in disuso”; “Lu lavuru”, “Li parti”, “Li sistemi”, “Lo biastimà”, “Lo magnà”, “Lo vestì”, “Le cure”, “Fatti e misfatti” (quelli di ieri e quelli di oggi); “Li sviluppi, “Le costatazioni”, “Cambiamenti”, “Controsensi”, “Corpus Domine”, “La fatica”, “La vennegna” (e in tutti questi capitoli degli usi e consuetudini di una volta e il poeta procede normalmente con una coppia di sonetti, il primo dedicato all’ieri, il secondo dedicato all’oggi – e, se pensiamo che l’oggi di Massimi è quello degli inizi degli anni Sessanta… cosa ne sarà di tutto quel mondo agli inizi del secondo decennio del nuovo Millennio?)
Esaminiamo il modo di procedere poetico di Massimi partendo da “Ricordi di infanzia” (in questo caso si tratta di 4 sonetti, ma prenderemo in esame il primo e il quarto, in quanto i due centrali si diffondono sui giochi di un tempo: nel 1°, così era, una volta, Mentana:
Li latri nun ce stau a stu paese / e gnisciunu se mette a chiede gnente / lavora e campa sempre onestamente / s’intenne… s’è de razza mentanese. // È contentu de sé, senza pretese / sà rispettà l’amicu, e lu parente / aiuta se lo pò sinceramente… / e pe’ deppiù, è affabbile e curtese. // Io che conoscio a funnu la quistione / sò convintu che er bene che je vojo / è ricambiatu senza discussione. // Perché ortre a essece natu, e un pò cresciutu / me sento trasportatu da l’orgojo / pe’ lu paese meu, bellu e computu.
Nel 4° sonetto, come stanno oggi le cose:
Ma mò… che lu paese s’è ’ngranditu / e lu sistema de campà è cambiatu / me pare un sugnu tuttu lu passatu / un munnu spenzieratu, ch’è sparitu. // Mò… lu monellu è tuttu ripulitu / nun và scarzu, nun è più ’nzujatu / te và ’ncravatta, come lu surdatu / e discute de sporte, e de partitu. // Però lu Spannetturu, Fontappressu, / lu Ponte, la Matonna, e la Sballata / sono memorie che me porto appressu. // Lu Casalinu, co’ lu Punticellu, / lu Fornaciò, e la Rocca, mentuvata / me fau ripiagne, quillu tempu bellu.
In questo libro proponiamo altri esemplari sonetti di A. Massimi nelle sezioni dedicate ai Soprannomi, ai Giochi, alla Gastronomia e in Antologia.
Ricordiamo pure che nella raccolta citata in quartine a rima alternata (il primo verso è un settenario e gli altri tre endecasillabi) figura anche una ricostruzione dell’epica battaglia del 3 novembre 1867, “La battaja de Mentana”.
Nella sua Cronica mentanese (e altro) in versi mentanesi Goffredo Vittori presenta quattro testi di un poeta a braccio, suo avo, Ferdinando Vittori (1858-1944), detto Zì Fiore, antesignano dei cantori mentanesi ed autore, “poveri e deliziosi versi – commenta Goffredo – che tanto dicono di un mondo sepolto”). Questi “verzi sparzi” sono stati raccolti da Linetta Lucci, da Romualdo Fravili detto “Romovardo” e Archite Lodi. Riproponiamo qui due componimenti:
Tuttu lu ggiorno sto a lu Pascularu / a pàsce le mie vaccarèlle; / ’n saccoccia n’ tengo penna e calamaru / pe scrive le mie rime bbelle. // Da quistu monte scopro ’r Vaticano / su a li titti der popolo romano. // Lu ggiorno godo Sòle e lu chiarore, / questa è la vita de lu vécchiu pastore.
Sette befurghi stévanu ’n faccenne / e ttutti e ssette atturnu a ’n tavolinu / ché stevano a ffa l’atomia a ’na greggia:* / Pietro Fravili lu Capu spezzinu, / Curridurittu squajava la cònzerva, / Peppe Lacché a pistà co lu pistillu, / Sarvatoretto a pià le seccarelle, / e l’orvignonese reggeva lu luminu; / mentre Cicoria ch’era omo… “divinu” / éva da zì Giacinta a pià lu vinu. // Zì Ferdinando, ch’era più pormone, / steva corgatu sopre ’n pajarone.  (* ’atomia a la greggia: forse sezionare una pecora)
Cronica mentanese, (2000), di Goffredo Vittori è una raccolta ampia e variegata presenta componimenti in dialetto mentanese, ricchi di verve e d’ispirazione, bene incanalate in strofe libere, ritmate e rimate, solidamente costruite. In essa il poeta fa una cavalcata all’indietro: “dalla scuola ai giorni recenti; in un’epoca che è passata, nei vari decenni, da un regime, a una guerra sofferta e perduta, a un dopoguerra tribolato e superato; dai rudimenti delle varie discipline alla tecnica sofisticata; dal fuoco del camino ai fornelli a gas (…) Sono anche una traversata sulle vicende e i vari climi politici e storici (…) Il resto sono divagazioni su ciò che può aver colpito la fantasia, e magari più spesso i sentimenti (…) Forse è anche un rimpianto e un commiato. Chissà…”
Nel sonetto “Lu Tre Novembre dell’’867” rievoca la celebre battaglia di Mentana:
Viaggiatore che ffa’ la Nomentana, / quanno che ppassi fermate ’n moméntu / ’nnanzi a le scali de lu Moliméntu / a ssalutà li mórti de Mentana. // ’Llu ggiorno de Novembre, fu un “moméntu” / che lu sugnu da fa Roma itagliana / pe un’Itaglia ormai libbera e sovrana, / je svaneva in quell’ora de torméntu. // Ce sboccianu le rose atturnu all’Ara, / rósce de quello sangue che la Terra / aresucchià pe ddàllo refioritu. // Mó, a recordà quella ggiornata amara / so l’ossa dell’Ossario, che la guerra / de chi ha pérzu e chi a vintu cià reunitu.
In Antologia proponiamo “Lu paese méu” (terzo classificato al Premio Mezzaluna di poesia dialettale del 1988) e “L’Arba” quest’ultima tratta dal libro curato dall’associazione Pro Loco Montecelio, nel volume “D’Abbrile canno l’aria se rescalla…”. Primo Premio di poesia dialettale “Don Celestino Piccolini”, a cura del Comitato Festeggiamenti S. Michele, Montecelio, 1978.
Il tema nostalgico di Mentana di una volta sovrasta tutti gli altri come fonte perenne di ispirazione di Vittori. In “Vengo da ’n paese…”, poesia vincitrice del Premio Mezzaluna del 1989, esso è squadernato in ogni minimo particolare e il senso di appartenenza è ritmato dal settenario refrain guida: “Io vengo da ’n paese”: Io vengo da ’n paese / de sassi de pietre, de turri; / da ’n paese ’ndove la campagna / entrava drento a le casi, / ’ndove la terra porta ancora li signi / de ’na grascia antica e dde ’na miseria eterna. // Io vengo da’ n paese ’ndove atri signi / stau spariati qua e llà tra le casi ciuchette, / strette atturnu a lu Palazzu / come ppucini accosto a la bbiocca. / Io vengo da llà ’ndove era sempre alegro / lo sbattocchià de le campane, / e fforti e ssguillanti sopre a li sergi / li férri de le bbestie da soma. // Io vengo da ’n paese ’ndove le staggiuni / eranu segnate da la venuta de le rondinelle, / da le bbarrozze cariche de gregne, / da un via vai de somari e ccarritti carichi d’uva, / da li cammini che fumicavanu. // Da llà io vengo. Io vengo / da ’lle stradi sterate, / da ’lle stradi mbrecciate da ’ndove all’improvisu / ssboccavanu bbranchi de bbovi; / da quell’ombre chiare e liggère io vengo, / dall’ombre de li vecchji a sede tranquilli / su a le scali de lu molimentu. // Io vengo da ’lla casa / ’ndove le fiamme de lu camminu / ce reccontavanu le fravule, e le scali, la sera, / reportavanu passai ch’oprevanu lu core; / ’lla casa ’ndove la faccia de ’na madre / gnente e ttuttu diceva de le pene passate / e ssolu all’occhji, ogni tantu, / ce bballava ’na lagrima pe’ un maritu / sotterratu giovine, quanno mori’ giuvini / se lasciava un vòto pe ssempre. // Io vengo da ’n paese ’ndove / nne ’na bella mmatina de ggiugnu / du o tre fargacci che ssputavanu férru e ffocu, / ce sse bbuttavanu sopre / pe llasciacce a ppiagne tra le macere / de le casi ssbracate. // Da llà io vengo. Da ’lle stradi / de galline e dde cani ’nn amore, / e dde porte sempre aperte, / e dde vuci che ttenevanu un nome, / e dde monelli conténti / che sse currevanu appressu… // È ’n canestrillu pjinu solu de ricordi / stu paese meu!
Il poemetto C’era una volta… un Paese, nella favola e nella storia lunghe cent’anni e più di cento (titolo originario dell’opera “I Barbari. Da Nomentum a Mentana tra storia e leggenda”), è nato negli anni ottanta ma è stato pubblicato nel 2005. Dice di esso l’autore,
l’ho scritto ‘a orecchio’; idioma che mi è più congeniale; una ‘lingua’ promiscua. mischiando dialetto, italiano e licenze poetiche… insomma più o meno la parlata corrente”. Il libro parla di Mentana, della sua storia, delle sue case delle sue strade. E Mentana è il palcoscenico sul quale si sviluppano vicende che mescolano dati storici e reali con personaggi immaginari: Insomma “una storia che non pretende essere quella ufficiale; una storia che è un sogno, una storia come tante.
Da questo libro citiamo il sonetto (di cui viene proposta una versione in mentanese in Cronica Mentanese).
“Il paese mio d’una volta”:
Era un mondo sereno; la matina / ce svejavano presto l’ucelletti / dall’arberi là intorno, e da li tetti / er vento ce sonava l’ocarina. // Mentre che su la strada li carretti / tra-tra, tra-tra, tra-tra, era ’na manfrina / che sentivi salì fra l’aria fina / assieme all’antri soni benedetti. // Era un mondo de pace, che la sera / aritrovavi attorno al tavolino / tra ’na minestra calla e ’na preghiera // Un modo indove l’anzia e la paura / nun stavano segnate sur destino / dell’omo abbracciato a la natura.
La sua terza opera poetica, Li sonetti,G. Vittori, èin un linguaggio che la prefatrice Francesca Vergari definisce “dialettale ma non troppo” nel senso cioè “che non si lascia ingabbiare dall’incomprensione tipica di una ristrettezza idiomatica, ma che piuttosto si libera in una vulgata parlata sinceramente dalla maggioranza, in maniera che sia comprensibile da chiunque si affacci alle pagine della sua opera”. Per usare le stesse parole dell’autore: “Sono, questi sonetti, il risultato del guardarsi attorno e nel confronto tra il paese di ieri e il caos di oggi”.
Nella poesia, posta in quarta di copertina, intitolata “L’inferno” (in terzine e di ispirazione dantesche) il poeta riassume i temi che più gli stanno a cuore: il degrado e la devastazione di Mentana (Tanto amara je fu così la sorte / a ’sto paese che nun ve trovai / sane le cose escluse cose morte) e la sua profonda disillusione: Ora lontano, dar mio esilio canto / e grido vana speme ed il dolore / pe’ quella terra de cui ho gran rimpianto, // perché de me là ciò lasciato ir core.
Ai temi del degrado, della progressiva cementificazione e della protesta per lo scempio dedica moltissimi dei suoi componimenti, soprattutto nella prima parte intitolata “Osservare, ascoltare, raccontare” che si apre con un sonetto idilliaco “Un paese” (C’era disteso in mezzo alla natura / docile e aspra, ricca e disuguale / un paesetto che come un animale / giaceva privo d’anzia e de paura). Ma è seguito subito dopo dalla “Ballata pe’ un paese”, una severa invettiva contro lo scempio e la cementificazione abbattutasi su Mentana (sorte condivisa da molti altri comuni della provincia di Roma),  espressa in rapidi ed incisivi ottonari (in strofe disuguali e variamente rimati): Signor Sindaco st’andazzo / porterà sicuramente / al degrado dell’ambiente / mentre tu stai ar Municipio / proprio grazzie a quer principio / ch’era legge der Partito / che imponeva a la coscienza / tanta fede e la coerenza / ai valori che hai tradito. (In una nota, Vittori, rinvia a p. 112 del libro in cui sono elencati i sindaci che si sono succeduti dal 1946 al 2006, quasi a volere sottolineare che ognuno di loro, a prescindere dal colore politico ha contribuito al disastro). La poesia continua, innervandosi sul verso-ritornello “Seguitamo seguitamo”, martellato per ben cinque volte ad inizio di strofa, ad indicare la protervia e la non resipiscenza degli amministratori:
Seguitamo seguitamo / a impastà carce e cemento / pe’ arzà case-formicari / e pe’ edificà arveari / che così sarai contento / mentre qua noi sopportamo / tutto quanto ’sto disastro (…) Seguitamo? E seguitamo / a fa’ case e l’antre case / do’ ce stavano cerase / e antri frutti che amavamo / dove c’era l’erba e ir fiore / ch’era pace era colore / mentre adesso la campagna / è na cosa do’ se magna /quer magnà che t’ha portato / a imità Ponzio Pilato (…) Seguitamo seguitamo / a fa sterri e arzà mattoni / pe’ fa ride li vorponi / però ir Campo nu’ lo famo / e a dà carci ar coso tonno / s’ha d’annà… ne vòi la prova? / hai capito a Fonte Nova / mentre se te vòi erudì / s’annerà a Monterotonno / che le scole là… beh, sì…  pe’ nun dì dell’antri Uffici (…) Seguitamo seguitamo / ma do’ sta porca matina / la palestra la piscina? / e le strade che nun famo? (…) Seguitamo seguitamo / a gonfialla ’sta borgata / come ormai c’è diventata / perché tanto noi abbozzamo / poi se ir traffico ce cresce / certo a te nun t’arincresce / se lo smogghe ci avvelena / tu nun è che te pìi pena / de la carca che te spieghi / tu ce ridi e te ne freghi. // Te ne freghi e dài ’na mano a li soliti furbetti / col firmaje li progetti / ner tramente che ir paesano / sta a pagà le conseguenze / dell’aggì de tante lenze…
Gli amministratori purtroppo sono ammalati di ‘mattonite’:… qua ogni cristiano / appena mette piede ar piano tera / d’ogni Commune è bono a armà ’na guera / pe’ ammucchià mattoni a tutto spiano. E le conseguenze si pagano con il traffico abnorme (“Ir traffico”) e non solo (“La casa sul Borgo”):
Ir problema è che ir traffico ciaumenta / fra ’ste case su strade troppo strette / e le scòte da su a le fondamenta. // E il vecchio borgo freme; è rasegnato / arespiranno smogghe, ce trasmette / un’angoscia e il rimpianto pel passato.
Nella seconda parte, dedicata a chi è innamorato, a chi lo era, a chi lo sarà, intitolata “Parliamo d’altro! Giuliette e Romei”, siamo di fronte a sorprendenti sonetti amorosi che, dice ancora Francesca Vergari “ricordano gli ardori giovanili, la passione per i primi amori, per gli sguardi rubati, per le passioni sottaciute o consumate all’ombra di un ciliegio (…) I versi raccontano i sospiri del poeta, i primi approcci amorosi, l’illusione che accompagna l’innamoramento, l’abbandono davanti alla bellezza femminile”. Qualche accenno:
Ciaveva l’occhi belli, così belli / che pareva ce fosse entrato ir mare / pe’ scapricciasse e fa’ come je pare / sotto a un celo de rondini… (“L’occhi de L.”); Le labbra le si aprirono sui denti / belli e d’avorio, e rapida e guizzante / la lingua l’invitò a dorci e frementi / baci de fòco… (“Li baci”); La bocca ricordava propiamente / un fiorellino aperto che se schiude / e quella voja accesa che prelude / a un contatto tarvorta troppo ardente. // Dorce e carnosa e rosa; lì la mente / se posa, ce vorteggia eppoi concrude / ir volo pe’ posàvvese, e s’illude / che verà accolta ar bacio più fremente (…) Labbra dischiuse offerte all’abbandoni / che te concede, oppure che te nega, / mutevoli ar capriccio e a le passioni (“La bocca”);  Tu stai a giocà co’ me perché sei infame; / nemmeno la pietà ciài pe’ ’st’amore / ch’è come un tarlo che me rode ir core, / e questo è un tarlo che cià sempre fame! (“Il tarlo”); Nun ce se crederebbe, ma Giovanna / a cinquant’anni e passa è così fresca / che un’antra come lei dove se pesca? (…) È aggile e sinuosa; lei te sembra / ’na quarche indossatrice in passerella / che incede e smove un parpità de membra “Giovanna”; Era un sentisse ar core la dorcezza, / quanno che l’incontrava la matina; / era come ariceve ’na carezza / che je dava li brividi a la schina. // Questo je provocava a lui Rosina, / co’ quer visetto ch’era ’na bellezza / e ir corpo snello e la camminatina / che a guardalla faceva tenerezza (“Rosina”).
Nella terza conclusiva parte sono raccolti circa 300 aforismi (“Li fiorismi”) su politica, ambiente, tradizioni, amore e storia.
Marco Rosari è autore delle raccolte poetiche Guardenno arreto, All’ombra de lu Campanile, Mentana, una dolorosa metamorfosi.
In Guardenno arreto e All’ombra de lu Campanile egli racconta “fatti e fatterelli, acquisiti ascoltando le altrui espressioni, durante le varie escursioni lungo il borgo, per poi riportarle in rima”. Grazie ai suoi componimenti infatti è possibile ricostruire episodi della vita quotidiana in un comune alle porte di Roma, rimasto fino agli anni Cinquanta con le sue usanze e tradizioni, quasi intatte. Sottolinea Salvatore G. Vicario
Nulla di sofisticato, s’intende, ma nei versi, nelle espressioni dialettali, nei modi di dire si scopre l’animo popolare così com’è stato assimilato da un nativo e tramandato in un vernacolo non inquinato. Le composizioni del Rosari, spesso, acquistano il valore di documento e, credo davvero, non sia merito di poco conto.
Ecco, a mo’ di esempio “Vent’anni ventiquattrore”:
pe famme ccostà a la chiesa / e pe’ famme cambià colore / c’è volutu tuttu l’ardore / e ventiquattrenni de disperata impresa // de donvincenzo, caricu d’amore / pe la parocchia e li paesani / ma lu prete novu co li modi strani / l’idea m’arecambiatu co ventiquattrore.
E “Li tafani” cioè coloro che rrivanu a Mentana
allampanati / co li cazuni sporchi e consumati / a cerca de sostentamentu. // Doppu mpò, se so già piazzati / e sse contentanu de mezza razione / ma la fame è tanta, che l’azione / la prolungano fin’a che se so sfamati. // Ppo, vista l’ottima produzione / decidu d’accasasse pianu pianu / pe tenè la preda sottomanu / e succhialla a pranzu, cena, e colazione. // Ppo pensanu, ngrassasse è umanu / e è da fessi, nun fassene na scorta; / co sta mira, iettanu fori de la porta / li tafani, de produttu paesanu. // De lu resentimentu, pocu jè mporta / vengu da fori e sso bbiduati / a succhià lo sangue, pure all’ammalati / e a la preta, pure mezzo morta. // Senza vergogna, succhianu beati / fau li signuri co le trasfusiuni / da boni tafani, nun fau obieziuni / se li sangui, so rusci o niri / durgi o salati.
 In Mentana, una dolorosa metamorfosi, l’autore premette di non essere: “né laureato né diplomato, ma di avere frequentato solo la seconda media nei periodi in cui l’istruzione era meno profonda di quella di oggi…”. Ciò non gli impedisce di regalarci una documentazione di un mondo ormai patrimonio solo di pochi nativi, che potranno condividere “i vari momenti di vita e di lavoro dei mentanesi” e lo stato d’animo del Rosari “fatto di momenti di … romanticismo e spesso di amarezza”. Usando – precisa Salvatore G. Vicario – “un verso suo personale, che non è né dialettale puro né in lingua, ma efficace nel descrivere esperienze ed emozioni”. E tuttavia, scrive nella presentazione Antonio Alesiani, la sua è una produzione poetica “composta nell’arco di un periodo di trasformazioni sociali e culturali […]; scaturiscono così intensi ritratti di scene ricche di temi e soggetti legati” alla propria terra, all’infanzia, ai ricordi di famiglia, al lavoro dei campi”. Laura Costantini ha colto nei suoi versi “echi provenienti dalle satire di Orazio” e specifica che i suoi “canti sono soffusi di tenera malinconia” e di un forte “rimpianto per una forma di vita agreste ormai tramontata”.
Di Carlo Pasqui (nato a Mentana nel 1935) abbiamo due poesie entrambe premiate ed inserite nei libri pubblicati in occasione del Premio Mezzaluna 1988 e 1989. Nella prima “Primavera” insieme all’esplosione della primavera sboccia prepotente un amore tutto carnale:
Primavera, pe me, vordine amore! / Io co lo primu callu sento ’n core / svejasse ’na passione tandu forte / che pe frenalla nun esistu porte. // (…) Me sugno ’ndurnu femmone barzotte / che ritu e spannu grazie a chi le vole… / duci come le ficora brusciotte! (brusciotte: varietà di fichi neri).
Nella seconda “Un pponte”, pur in un contesto calmo e quieto, la primavera ridesta un’illusione d’amore:
Lónga è la strata e ppe lo più ’n salita / me repuso ogni tandu a quale pponte / me reggiro le róte de la vita: / parto da piccolittu e vajo a monte. // Stò soprappenzieru… un cane ’bbaia / me scòto e véto ’ndurnu tandi fiuri / sendo londanu ’n asinu che raia: / l’aria s’è fatta doce, i mundi puri. // Lu repusu d’un pponte è Primavera! / Li vecchjitti se mittu a pettorina / e chiacchiarenno spettanu la sera. // Lu sòle fa drizzane ’n pó la schina / e l’illusione, ch’è l’ultima spera / fa fà l’occhjittu a quale signorina!
Sempre tratto dall’edizione 1989 del Premio Mezzaluna, in “Un miraculu” il poeta mentanese Fernando De
Luca, pur in un contesto elogiativo del “miracolo” costituito dal Centro sportivo Mezzaluna, (Un raggiu parte e drittu come’n sparu / ppiccia la mende a’n omo de valore. // Quistu le cóse smorte rende vive! / Ha creatu ’n complessu de strutture / che consentu le pratiche sportive) nato da ruti e scannafossi della sua infanzia.
Ero monéllu e sembre né l’istate / evo a la fonde de la Mezzaluna / evo a cchiappà li rangi e le ranocchi / joppe lu fossu ’n mezzu a li canniti. // Porvere o fanga eranu le strate, / de la notte la luce era la luna / me frecavo cerase, pronca e nocchie, / sendevo ’ndurnu a me raji e nitriti. // Ce steva un scannafosso e tanti ruti. / Ci evo quasci nutu: li carzunitti / limati, rattoppati e senza centa! // Sarvatici ’li posti e conosciuti / a le curbi, a le sorghe e a li cellitti…
(un scannafosso e tanti ruti: un dirupo e tanti rovi; curbi: volpi)
 
ANTOLOGIA
 
ARTURO MASSIMI
Lu lavuru
Streccià, spalà, potà, pezzutà, e cegne,
e ricoje li càpiti a filaru
era un lavuru friddulusu, e maru
che, a tutti je piavanu le fregne.
Un focu de cannacce senza legne
era l’amicu, più cercatu e caru
’na vita cretta, simile a l’avaru
che, creto a peggio più nun se pò scegne.
Però… a tempu de la vangatura
de lo roccà, e de dà l’acqua ramata
se ringrillava tutta la natura.
Perché le canzunette, e li sturnelli
rillegrava de canti la giornata
uguale a sfumature d’acquerelli. (…)
16 dicembre 1963
 
La fatica
A tempu meu, mannaggio la pupazza
toccava arzasse prestu la matina
co’ la vanga pe’ collu, o la forcina
e jh, come de solito a fa piazza.
La miseria parea nera de razza
e la fame fremea più che canina
lo friddu te scurreva pe’ la schina
e lu sole picchiava come mazza.
Allora lu caffè d’Attaccalite
faceva da richiamu, e da specchiuttu
mostrannu attrezzature più assortite.
E quanno nun trovavi a fà giornata
reivi a casa, peggio de un sconfittu…
co’ un pisu, e co’ ’na pena desolata.
 
Oggi ’nvece se serve ’n’operaju
te po fà pure niru, o paonazzu
che, lu scartu magari de lu mazzu
nu’ lo trovi nemminu più pe’ sbaju.
A quilli de mone, lu lavuru è un maju
benzì sò strapagati a prezzu pazzu
co’ ’n’orariu piuttosto da strappazzu…
la terra è diventata un viru guaju.
Pe’ cuntu meu, nu’ provo meravìa
la gente ha operti l’occhi, è come un gattu
che, fruga e frega, e campa la famìa.
Viva la faccia de l’era presente
che, gnisciunu te sgobba più da mattu
e fà l’affari séi, senza fà gnente.
12 gennaio 1965
 
GOFFREDO VITTORI
Lu paese méu
Un rampazzu de casi e un campanile
da lu Ponte finènte a la Madonna,
all’ombra de ’n Palazzu signorile
che cce ffonnava l’ogna e cce l’affonna.
Tutt’atturnu campagna; e appena Abbrile
arescallava l’aria, ecco la fronna
spontà dall’urmu, areècco da le file
de piante sboccià fiuri a onna a onna.
Un mucchjittu de casi, che la Storia
ce l’era tuttu quantu sgraffignatu,
ma cche faceva lume a la memoria.
Mó, mentre li politichi ce ridu
me cùnnulo stu munnu, ch’hau sfasciatu,
come un pàssaru mórtu drento a un nidu.
L’arba
(da la finestra de Federica)
 
Se fece l’arba. M’arecordo venne
da llà a Monteggennaru, co un ventaju
de luci straordinarie; e tra ’lle penne
ce comparì ’na Mani luminosa
che aprì le dita, le movì, e co’ quelle
ppiccià lo scuru
e scancellà le Stelle.
E ntantu quella Mani prodiggiosa
sollevava lu Sòle fin’ar Trono
piazzatu su a lu Monte.
E quannu un Gallu
cantà a lu ggiorno novu che rrivava
la Terra, ’nginocchiata a lu Portale,
spetta lu Re che steva aprenno l’ali
pe lluminà lu Munnu.
 
Cenni biobibliografici
Lucio Cantagalli. Nato a Mentana il 11 novembre 1947. Laurea in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma. Consegue le specializzazioni in: Gestione qualità nella Pubblica Amministrazione e l’attestato di Internal Auditor Sistemi di Gestione Qualità. E’ stato presidente della cooperativa culturale ‘Comunità di Mentana’ editrice de ‘Il giornale di Mentana’. E’ autore di cinque pubblicazioni di storia locale. Ha ricoperto incarichi amministrativi come consigliere comunale di Mentana, assessore al Bilancio e Patrimonio, presidente della USL Roma 24. Ha svolto attività di docente in materie letterarie e di dirigenza scolastica. Fondatore-consigliere del Comitato culturale “Mentana incontra…2011”
Fernando De Luca (poeta mentanese) di lui figura la poesia “Un miraculu” (di cui si riportano brani in questo libro) premiata e pubblicata nell’edizione 1989 del Premio Mezzaluna.
Arturo Massimi, è autore della raccolta poetica I confronti (1966).
Carlo Pasqui (nato a Mentana nel 1935) è autore del libro Poesie. Di lui abbiamo due poesie entrambe premiate ed inserite nei libri pubblicati in occasione del Premio Mezzaluna 1988 e 1989, di cui riportiamo brani in questo libro.
Gino Pietrollini, mentanese, nel suo Mentana. Parole, posti: basto, carretto, giogo, barrozza, legature (1999) dice di sé: è lu fiju de Teresina la Ciociara e de Giuglio; à lavoratu a Roma a la Banca e mo sta ’n penzio’; e la dimenica cammina suppe se montagne.
Marco Rosari è autore di tre raccolte poetiche Guardenno arreto (1997), Mentana, una dolorosa metamorfosi (2007), All’ombra de lu Campanile (s.d.). In Mentana, una dolorosa metamorfosi, l’autore premette di non essere: “né laureato né diplomato, ma di avere frequentato solo la seconda media nei periodi in cui l’istruzione era meno profonda di quella di oggi”.
Adolfo Valentini Nato a Monterotondo (Roma) il 20 giugno 1940. Formazione di studi liceali e di autodidatta. Collezionista di antichità. I suoi studi-ricerche spaziano in una prospettiva interdisciplinare: storia, archeologia, ceramica, fotografia, falegnameria, ebanisteria, informatica. Autore di pubblicazioni, articoli e relazioni di umanistica ha anche promosso manifestazioni ed associazioni culturali. Ex impiegato della Banca d’Italia. Per un decennio è stato membro della Commissione urbanistica del Comune di Mentana. Fondatore-consigliere del Comitato culturale “Mentana incontra…2011”.
Ferdinando Vittori (1858-1944) poeta a braccio.
Goffredo Vittori è nato a Mentana nel 1929. Ex commerciante, sposato, due figli è autore di tre romanzi (Un biglietto di andata e ritorno; Anarcus; La collina morta); poeta in lingua, in romanesco e in dialetto sabino ha pubblicato le raccolte poetiche: Cronica mentanese (e altro) in versi mentanesi (2000), C’era una volta… un Paese, nella favola e nella storia lunghe cent’anni e più di cento, 2005, Li sonetti, (dovrebbe essere del 2009 o 2010)
 
Bibliografia
Cantagalli, Lucio, Storia del Regno d’Italia nella vita della Sabina Romana, Aracne, Mentana, 2003
E’ un saggio che ripercorre l’itinerario storico dall’epoca garibaldina alla II guerra mondiale. In modo particolare si inserisce Mentana e la sua popolazione nel processo storico per cui rappresenta un valido strumento per la ricostruzione della battaglia di Mentana del 3 novembre 1867.
Cantagalli, Lucio, Mentana 1943-44, Aracne, Mentana, 2000
L’autore ha inserito come sottotitolo ‘storia minore di una terra e della sua gente’ quasi a voler attirare l’attenzione di quel periodo storico ‘di cerniera’ di quell’ 8 settembre 1943 quando da paese combattente si trasformò in paese belligerante ma con risvolti devastanti in tutto il territorio italiano perché ogni terra e ogni gente versò il suo contributo pur essendo ‘minore’.      
Cantagalli, Lucio, – Valentini, Adolfo, Le tradizioni popolari di Mentana, Pro manoscripto, Mentana, 1978
Gli autori condividono una ricerca appassionata alla scoperta di antiche tradizioni, vera ricchezza di un territorio e della sua gente: il dialetto, gli usi e i costumi. Oggi scomparsi ma che meritano una riflessione profonda per lo stile di vita.
Massimi, Arturo, I confronti – Poesie in lingua italiana, in dialetto romanesco e mentanese, Tip. Artigiana, Grafica commerciale di Villalba di Guidonia, 1966.
Pasqui, Carlo, Poesie
Pietrollini, Gino, Mentana. Parole, posti: basto, carretto, giogo, barrozza, legature, S. l., s. n., stampa 1999 (Montecelio, Veligraf)
Rosari, Marco, Guardenno arreto, Mentana 1997
Rosari, Marco, Mentana, una dolorosa metamorfosi, Mentana 2007.
Rosari, Marco, All’ombra de lu Campanile, Mentana s.d.
Tomassini, Roberto – Alesiani, Antonio (a cura di), I santi martiri nomentani Primo e Feliciano, Confraternita S.Antonio Abate, Mentana, 2008
Pubblicazione che costituisce gli atti del convegno di studi tenutosi a Mentana il 16 giugno 2007 da relatori prestigiosi su un tema poco conosciuto in Sabina e per questo costituisce un significativo contributo storico-culturale. Questi i temi: “ Gli atti dei Santi Primo e Feliciano nel loro inquadramento storico” ( mons. Carmelo Cristiano), “ I Santi Primo e Feliciano nell’ambito storico-religioso di Mentana” (dr. Roberto Tomassini), “ La Diocesi Sabina: storia, cultura, territorio” (dr. Umberto Massimiani), “ Santità e martorio: simbolo di fede e cultura nel XXI secolo” (cardinale Josè Saraiva Martins).
Valentini, Adolfo, Da Nomentum a Mentana, Tip. Marini, Mentana,1999
Analisi storico-topografica dalle origini alla vigilia del 2000 e considerazioni sull’evoluzione urbanistica del territorio.
Vicario, Salvatore G., Mentana: cavalcata su tre millenni, Roma, 1967.
Vicario, Salvatore G., “Fascina”, Tip. Balzanelli, Monterotondo, 1990.
Vicario, Salvatore G., a c., Nomentum, Lamentana, Mentana, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1999.
Vittori, Goffredo, Cronica mentanese (e altro) in versi mentanesi, Bariletti Editori, Roma, 2000.
Vittori, Goffredo, C’era una volta… un Paese, nella favola e nella storia lunghe cent’anni e più di cento, 2005.
Vittori, Goffredo, Li sonetti, manca anno di pubblicazione, ma dovrebbe essere del 2009-2010