34. Civitavecchia

 52.204 ab., detti civitavecchiesi a 10 m slm. È situato sul Mar Tirreno, a sud-ovest dei monti della Tolfa, circoscritto dai fiumi Mignone e Marangone. È sede del Museo Nazionale Archeologico. La città è medaglia d’oro al merito civile.

Il dialetto di CIVITAVECCHIA

Carlo De Paolis nel volume La pesca marittima a Civitavecchia in epoca moderna e contemporanea ci informa che i nativi hanno sempre mostrato una scarsa propensione all’esercizio professionale della pesca che pertanto è stato monopolizzato dalle genti provenienti dalle altre zone meno pescose o con più alto livello di concorrenza, in particolare da Gaeta e dall’area campana (Pozzuoli, Ischia, Torre del Greco) e, in misura minore dalla Liguria, Sicilia e Toscana. Questa realtà socio-economica, consolidata nei secoli, e che ha influenzato in qualche misura anche il dialetto locale, trova un’eco nei versi del poeta civitavecchiese Dante Tassarotti: Ne la nostra città le pescatore / so’ quase tutte dell’artre paese, / ne conte poche de civitavecchiese, / a centinara vengheno da fòre! / So’ tutta gente giù der meridione, / siciliane, barese e pozzolane, / le sente dar dialetto ’ste persone.
Costoro trasferirono a Civitavecchia (nel “Ghetto”) le proprie tradizioni e soprattutto i dialetti che, integrati tra di loro e in parte anche con quello parlato nel centro storico, dettero vita ad una vera e propria lingua autoctona fondamentalmente napoletana incomprensibile agli abitanti degli altri rioni. Oggi questo dialetto “ghettarolo” è quasi del tutto scomparso. Rivive solo,  recepito molto limitatamente in alcuni versi ghettaroli del poeta Cesare De Fazi (che riportiamo in Antologia).
“La parlata è quella di Roma con appena un po’ più di cadenza”, osservava a proposito del citavecchiese alcuni decenni fa lo scrittore Antonio Baldini (Buoni incontri d’Italia, Firenze, 1942, capitolo “Civitavecchia”).
Carlo De Paolis (siamo nel 2000) in Còre citavecchiese ci mette a parte della personale battaglia per evitare il suo appiattimento e la sua banalizzazione:
non solo rifuggendo da quel generico ed irreale ‘dialetto civitavecchiese’, una sorta di sottospecie del romanesco, molto frequente nei versi dei poeti locali, ma soprattutto mediante l’individuazione dei diversi strati sociali a cui appartengono i protagonisti. E quindi uso del dialetto del popolo minuto (civitavecchiese del centro storico e del Ghetto), semidialetto borghese (pancivitavecchiese), italiano regionale, appena velato da inflessioni dialettali proprio dei ceti più elevati e delle giovani generazioni.
 
E oggi qual è lo stato dell’arte?
 
1. I vocabolari e le grammatiche
 

Alcune note sul dialetto di C. De Paolis:
– alcuni verbi all’infinito presentano non solo il caratteristico troncamento, ma anche uno spostamento dell’accento tonico. Oltre alle forme màgna/magnà si hanno ad esempio tròva/trovà (modo di dire: viècce a tròva), véde/vedé, sènte/sentì, tène/tené. E anche nell’onomastica con il nome di Renato tanto Renà quanto Réna:
– l’articolo determinativo lo, la davanti ai sostantivi che iniziano con una vocale assume frequentemente la forma ell’: ell’impiegato, ell’acqua.
– in alcuni plurali maschili ed avverbi la desinenza lessicale in i viene pronunciata con la e: avante, veloce, istante per avanti, veloci, istanti.
 
Sempre a C. De Paolis dobbiamo la fissazione e la spiegazione di alcuni termini dialettali di particolare pregnanza, tratti dalle doviziose postille che accompagnano i suoi testi poetici:
Scazzafrujà: rovistare, frugare disordinatamente, cercare disperatamente; in senso figurato: rimestare, rivangare questioni sopite. Scazzafrujà, corrispondente al napoletano scatulià (rovistare nei cassetti), è un’estensione di scazzafuì (fuggire), a sua volta composto da scavze/scauze/scazza (scalzo) e fuì (in questo caso il prefisso scazza non ha alcuna motivazione se non quella di essere considerato ormai parte integrante del verbo), probabilmente un incrocio con ciafrujà (mescolare disordinatamente, imbrogliare, pasticciare, frugare). Strufàie: vecchi indumenti, stoffe usate impropriamente. Giubbicolòtte: un tempo giacca da lavoro, in particolare dei lavoratori portuali; oggi indica la tutina sgambata dei neonati che si allaccia sotto il cavallo. Addicriate/addigriàte: soddisfatti e felici, ricreati. Biscigolétta: bicicletta. Forate: gite fuori porta. Ricciate: merende a base di ricci di mare, appena pescati lungo la marina che costeggia l’Aurelia. Apprettà (di derivazione francese: appret, cioè affettazione,  mancanza di naturalezza, caricatura, moina): prendere in giro, prendersi gioco di una persona, infastidire; il sostantivo che definisce l’azione di apprettà è apprettaggio, la persona che la esegue, apprettatore e lo specialista, apprettacristiani.
Da un elenco di termini locali vari contenuto in Breviario di Cucina Civitavecchiese di C. De Paolis, preleviamo: cachino (cachi), dàttoli (datteri), sòrbola (sorba; per estensione: percossa), facioletti (da pronunciare con la c molto strisciante, quasi una sc: fagiolini; detto popolare: li facioletti / so’ la sostanza de li poveretti), merignana (melanzana), piparóne (peperone), piparó (peperoncino), scafe (fave), stramarindo/ramerino (rosmarino), règhete/règheto/ragano (origano), arangingià/rangiangià (merenda approntata in modo estemporaneo, in particolare pane condito con olio), caffè ar pedalino (caffè alla turca ottenuto facendo bollire la polvere di caffè racchiusa in un apposito contenitore somigliante a una calza, al fine di evitare la dispersione dei fondi; l’espressione viene riferita anche al caffè insipido), giangiarangià (uccelletto commestibile), grattacacio (grattugia), lanzagnolo (matterello per spianare la pasta), radìcola (graticola), tèsto (teglia con bordo alto, generalmente tonda), allavito (appassito, privo di vigore. Si dice in particolare dell’insalata condita e lasciata riposare per molto tempo), assibbito (privo di umidità, disseccato per eccessiva cottura pur non arrivando ad essere bruciato), concallato (si dice del cibo che ha assunto un aspetto molle ed un gusto fastidioso perché conservato in un luogo troppo caldo; ad es. il prosciutto crudo lasciato nell’auto parcheggiata al sole), tirettàcca (tenerume, parti cartilaginose della bestia macellata).
Una scelta di ittionimi (prodotti ittici scelti tra quelli non chiamati con la terminologia corrente in lingua) dal sito https:////www.storiacv.etruria.net e, a sua volta dal citato Breviario…
Arzilla (razza bianca), cazzo de mare (oloturia), fico femmina (merluzzetto), fico maschio (vedi melù: molo o “pesce molo”), gobbetto (gambero rosa. Di colore rosa e di modesta lunghezza, è considerato uno dei gamberi migliori), mazzàmma (pesce minuto di scarso valore commerciale; v. mazzumaja: pesce minuto di scarso valore commerciale, ottimo per insaporire il brodo della minestra o della zuppa di pesce; a Roma è chiamato “mazzàme”), papèngola (piccolo granchio nero e lucido, che abbonda negli scogli e avanza in diagonale), pesce ’n fànfera (pesce pilota. A Civitavecchia questa denominazione è usata quasi esclusivamente in senso estensivo per indicare una persona che fa il doppio gioco o che comunque è inaffidabile), pòrpo de scòjo (polpo comune, mollusco color marrone, con otto tentacoli provvisti di due serie di ventose. Prima di cucinarlo bisogna batterlo per ammorbidirne la carne), sparajòne (sarago sparaglione), sparnòcchia (canocchia o pannocchia), zero (spinarello), Bizzuchèllo, sbizzuchèllosbizzuchièllo: zero di ridotte dimensioni).
Su un cantone del piazzale del Comune si trovano incisi nel marmo perfino i prezzi del pesce di una volta, inclusi gli errori d’ortografia.
Nel libro di C. De Paolis La pesca marittima a Civitavecchia in epoca moderna e contemporanea c’è un’ampia esposizione sulle tecniche di pesca sia quella effettuata dalla riva (delle rùgole/attinie, delle rampatelle/patelle o scodelline, dei polpi di scoglio; con il lanzatore, filaccione, rezzaglio, sciabica, col coppo, ecc.) sia quella dalla barca, il vuzzo, classica barca civitavecchiese, deformazione dell’italiano gozzo, lunga da 4 a 6 metri, mediamente 6-7, acuta da prua e da poppa, in modo che possa avanzare sia in avanti che a ritroso, e largo nel mezzo. Con questa imbarcazione si effettuava la pesca dei ricci, quella con lo sfilaccione, con la lenza da tràina, col bolentino, con le callamaràre, con le coffe e palanchi, col lanzatore, con la ganganella, con la tonnara e, vietatissima, con la dinamite. Erano usate nella pesca reti da posta o fisse, vaganti, da circuizione, da strascico.
C. De Paolis precisa che, nel vocabolario dei civitavecchiesi, i veri pescatori professionisti sono unicamente i pozzolani e i paranzellari. Infatti:
Il pozzolano è il tipico pescatore con reti da posta (tramagli). La sua barca è denominata pozzolana: natante con scafo lungo, basso, e sottile, senza coperta, due tughe a sesto acuto di poppa e di prua, mosso da sei od otto remi a sensile e da una vela a tarchia che s’inalbera e disalbera secondo le necessità (polaccone); l’equipaggio è composto da un capo barca e da otto o dieci pescatori. Il pozzolano (…) esce in mare la sera, colloca le reti, torna a terra, dorme in casa, va di nuovo in mare l’indomani mattina, recupera la rete, rientra di buonora e vende il prodotto ai ristoranti, ai commercianti o direttamente ai consumatori al mercato ittico di piazza Regina Margherita.
Il paranzellaro è invece colui che è imbarcato sulle paranze, cioè il pescatore che esercita la pesca, locale o d’altura, con reti a strascico. (…) è stato sempre considerato una sorta di forzato del mare, tanto da essersi portato indosso per secoli il nomignolo di “schiavo”, caduto in disuso solo con l’avvento della motorizzazione. Le paranze escono di primo mattino, tutti i giorni escluso la domenica e tornano al tramonto replicando uno spettacolo antico e sempre nuovo.
Ecco come Eugenio Scalfari in Incontro con io, Rizzoli, Milano 1994, p. 51, descrive l’attività dei paranzellari, come si presentava dalla finestra della nativa casa civitavecchiese esposta al mare:
La mattina, prima dell’alba, partivano le paranze e tornavano la sera con il loro carico di saraghi, triglie. merluzzi, cefali e calamari. La sera partivano le lampare e restavano fuori tutta la notte attirando nelle reti stese a pelo dell’acqua banchi di sarde e di alici. Le famiglie dei pescatori provenivano quasi tutte da Pozzuoli e da Procida e conservavano di quei loro paesi di origine una parlata che col tempo si era corrotta e mischiata con le inflessioni del luogo, dando vita ad una cadenza spuria e sguaiata, ma le donne erano belle, con gli occhi di un blu profondo e capelli morbidi e scuri. Aspettavano al tramonto le barche dei loro uomini ed erano loro a sistemare i pesci nelle ceste, a preparare i banchi sopra i quali esporre le spigole argentee, le triglie color di rosa e gli scorfani rossi.
.
 
2. I proverbi e i modi di dire
 

Modi di dire:’O pilo tuo/ao pilo tuo (alla faccia tua; pilo sta per capelli; esclamazione scaramantica ghettarola); Jettà a mmare (buttare via; esclamazione ghettarola entrata nel lessico pancivitavecchiese; Nder ghèghen (nel deretano); lo/la magneresti in testa d’un tignoso (si dice di un cibo eccezionalmente goloso); annà più a fonno der Teseo (scomparire nel più profondo del mare, essere caduto molto in basso; come accadde al famoso rimorchiatore “Teseo” scomparso senza lasciar traccia). A rondemàno (espressione dialettale civitavecchiese che significa accanimento nel lavoro per conseguire un risultato con rapidità; adattamento dell’avverbio francese rondement: con decisione, prontamente). Avòja che se dice: è inutile dire il contrario tanto è evidente la validità della tesi sostenuta. Sarà fijo de ’n frate cercatore! Si dice per sottolineare la non somiglianza di un bimbo al proprio genitore. Mancalecani/mancalicani: neppure ai cani, esclamazione apotropaica per scongiurare tutti i possibili pericoli. Più su der fornaro: molto lontano. A spacca cocómero: modo di tuffarsi in mare stando raggomitolati e tenendosi le ginocchia con le mani.
In La pesca marittima a Civitavecchia in epoca moderna e contemporanea, introducendo il capitolo “Motti e modi di dire”, C. De Paolis afferma che:
per rendersi conto delle vicendevoli influenze linguistiche tra i pescatori immigrati e la popolazione originaria, appare interessante esaminare anche il modo di parlare di certe cerchie sociali e soprattutto i vocaboli, i motti, i modi di dire che traggono origine dalle attività marinare e dalla pesca.

Tra una ventina, forniti dall’autore, con adeguato commento, eccone alcuni: se semo sarvati pe’ rrotto de la cuffia (ci siamo salvati per un filo strappato, per un nonnulla; la cuffia è una rete da pesca a sacco). Aiutamo la barca (aiutare qualcuno, far l’elemosina, favorire il buon esito di un affare). Che manfrone! (nome del Pagello fragolino, indica in senso figurato una persona sgraziata e/o lenta di riflessi e/o che fa le cose di nascosto). Che prato de cefoli! (Che mare pieno di pesci! L’espressione fa parte del gergo dei bombardieri ed è stata nobilitata dal poeta Fernando Barbaranelli in una sua nota composizione che riportiamo nella nostra Antologia). ’Ndo va la barca va Baciccia (la moglie, i figli, i subalterni, devono seguire sempre il marito, il padre, il superiore). Dàje na vòca (dagli una voce, mettigli fretta. Nel dialetto napoletano voca significa dar voce ai rematori). Lanza e butta a bordo (variante locale del più noto: prendi e porta a casa. Il detto che alla lettera è un invito a catturare la preda, viene però usato in senso traslato per sottolineare una vincita nel gioco delle carte o una conquista femminile). Ha abboccato come ’na canosa (si dice degli ingenui e dei semplicioni che credono, abboccano, a tutto quello che sentono dire. La canosa, il pesce Sciarrano, si lascia catturare con facilità dai pescatori). Fà abbassà le vele (ridimensionare una persona, ridurla a più miti consigli. Le vele vengono infatti abbassate in caso di calamità, quali la forte tempesta, il vento contrario, la resa al nemico).

 
3. I toponimi e i soprannomi
 

Alla sorgente termale de “La Ficoncèlla” e alle sue virtù terapeutiche dedica una sua poesia C. De Paolis: aridona la mejo sanità / a chi ce mette in callo l’animella. // Imperatori, schiavi, pellegrini, / gente de razza etrusca e saracena, / cianno curato calli, cicolini (foruncoletti), / ogne incarnite e mali di schiena. Altri versi decantano le Sassicare, er fiume che costeggia Riparoscia… / Minio/Mignó da sempre mentuvato (il Mignone); Prima Torre: Torre Marangone;
La bella poesia “Er Ghetto” è dedicata da Carlo De Paolis al suo fraterno amico Renato Foschi, nato nel quartiere cosiddetto “Il Ghetto”, discendente da un pescatore di Torre del Greco che nel XIX secolo emigrò a Civitavecchia e andò ad abitare in quella zona. Anziché essere un borgo abitato da ebrei (com’era la sua destinazione) esso lo fu da pescatori e lavoratori immigrati provenienti nei secoli XVIII e XIX soprattutto da Gaeta, da Torre del Greco, da Ischia e da altre località del Regno di Napoli. Posto sotto la protezione di Sant’Antonio abate gli abitanti (detti ghettaroli) presero a chiamarlo Borgo Sant’Antonio o semplicemente Borgo, anzi sostennero che Ghetto era in effetti il diminutivo di Borghetto. (Borgo, borghetto, borgo Sant’Antogno, / da tutti quanti minzonato “Er Ghetto” / fai spreme a li studiosi er comprendògno / co’ li perché e percóme nacque er detto. // Chi dice: – Pe’ l’ebbrei fu progettato -, / chi se rifà ar dialetto gaetano, / chi strilla invece: – Và a mmorì affugato!, / è Ghetto perch’é ’n sito fòri mano -, (…) Eppure è confermato / ch’a Citavècchia (a dillo nun sò er solo) / er còre parla spèce ghettaròlo)
C. De Paolis nel suo La pesca marittima a Civitavecchia… ci racconta l’origine dei due velenosi nomignoli che le bande musicali locali la “Municipale” e la “Ponchielli” si appiopparono tra di loro:
La “Municipale” fu l’iniziale vittima dello sfottò degli aficionados della “Ponchielli”, i quali la soprannominarono “Vampara” prendendo spunto dalle lampade ad acetilene usate dai suoi anziani musicisti per leggere gli spartiti nei concerti serali, ma con la riposta intenzione di creare una ridicola associazione fonica col riduttivo termine di “Fanfara”. I sostenitori della “Municipale” contraccambiarono subitamente affibbiando ai bandisti della rivale “Ponchielli” l’ironico nomignolo di “Bianchetti”, ufficialmente per via della loro divisa bianca, in effetti per sottolineare l’omofono e omografo termine con cui sono indicate le larve delle acciughe che restano impigliate nelle reti delle “vampare” (lampare).
 

 4. Canti – filastrocche-indovinelli – giochi- gastronomia- feste&sagre-altro

4.1 Canti

“Civitavecchia mia”, musicata nel 1936 dal maestro Vittorio Palma su versi di Luigi Patrignani, è una celebre canzone che decanta la bellezza della Civitavecchia prima della guerra (quella stessa che aveva colpito Antonio Baldini nel suo Buoni incontri d’Italia, che resta, secondo C. De Paolis “una pietra miliare nella storia del rapporto sociale e sentimentale che si istaurava tra i forestieri e la città”) che così viene esaltata nel vecchio canto popolare: Civitavecchia è ’na città d’incanto / che a tutti piace tanto / c’è er pesce fresco e le ragazze belle / la gente assai de core / l’aria der mare fa scordà le noie / tu nun te ne vai più ce pie moje.
Luigina Bianchi in un resoconto apparso su iltempo.it (12/08/2003) di uno spettacolo musicale tenutosi nell’agosto del 2003 all’Infermeria presidiaria in cui sono state eseguite “Le più belle canzone civitavecchiese” informa che:
Il “Core citavecchiese” ha battuto all’impazzata sabato sera per le “Le più belle canzoni civitavecchiesi” presso il giardino dell’ex Infermeria Presidiaria tributando applausi a non finire agli eccezionali interpreti Alessandro e Mary Diottasi, Mauro De Socio e Tullio Venturini. Applausi anche al gruppo folk di Anna Cascianelli e Marilena Ravaioli nello spettacolo condotto da Paola Liberatore. Un pubblico di oltre 600 persone incantate dalla melodia delle note delle vecchie canzoni di casa nostra. Da “Civitavecchia mia”, alla meno nota “Ficoncella” il cui spartito musicale è stato riprodotto per come la memoria popolare lo ha trasmesso. La ricerca durata anni di Alessandro Diottasi ha permesso di ascoltare la stupenda serenata di fine ’700 inizio 1800 di anonimo “Vado all’alba” e la romanza di Pietro Gori “Già allo sguardo”. Simpaticamente ed allegramente sono state riportate le amarezze degli sfollati ad Allumiere durante la guerra con “Da quando siamo sfollati”. E le vicissitudini dei portuali e degli occasionali nel periodo post bellico (1948) con “Entra er vapore” e sempre nel periodo immediatamente dopo la guerra, “Civitavecchia mia” e la stupenda “Rose citavecchiese” . In chiave ironica invece sulla parodia de “’a tazza ’e cafè”, “Baffone” e de “Dujie e Paraviso”, gli sberleffi campanilistici a chi non era di Civitavecchia.
“Baffone” e “La ghettarola” con il dialetto civitavecchiese dell’epoca, che risentiva dell’influenza di vocaboli napoletani, pozzolani e gaetani, frutto di una presenza massiccia di persone provenienti da quei posti e che, in genere, alloggiavano fra il Ghetto e piazza Leandra. Allegro il motivetto della fine degli anni ’50 di Maurizio Buslengo, “Furastiero”, che segna una voglia di rinascita della città perché è un richiamo per i turisti. Altre due serenate, “Vago fiore” e “Serenata a fregatura” hanno ricordato il romanticismo, la sentimentalità degli innamorati che spesso, esprimevano i loro sentimenti alle persone amate sotto le finestre delle loro abitazioni. “Core citavecchiese” ha ricordato il passato ed i sentimenti forti del popolo vivi nonostante tutto.
Inoltre sono stati molto apprezzati gli stornelli civitavecchiesi per la diversità dagli stornelli romaneschi (alla Sor Capanna per intenderci).
La nota, lunga composizione di Renato De Paolis “La Pastorella” (pp. 20-22) è in Sei storie per una pastorella del figlio Carlo che, in Core citavecchiese, pp. 298 e ss., riporta due canzoni: “Va pe’ monti” (versi di Renato De Paolis, musica di Gaetano De Paolis) e “Montagna” (versi di C. De Paolis, musica di Vittorio Palma).

 
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
 
4.3 I giochi
 

“Artro che Disneyland” è il significativo titolo di una evocazione poetica di Carlo De Paolis dei giochi di una sorta di Disneyland di allora: il più famoso dei negozi di giocattoli, quello di Angelo Pugliesi in via Buonarroti dove erano accatastati: Sordatini de piombo e de cartone, / pistole a cento botte e a cappelletti / cappise (capsule detonanti), mazzafionne, fuciletti / durlindane co’ tutto er cinturone; // jò-jò, palline, piccoli (trottole), fusetti, / apisi (matite) e carte sughe (carte assorbenti) a profusione, / giuggiole, lecca-lecca de lampone, / chitarre, tric-trac e ciufoletti; // lacci de regolizia a girotonnno / pupazzi e cagnoletti pechinesi / pennini, gomme, astucci a doppio fonno… , insomma: pochi metri co’ drento tutto er monno / de noi bambocci civita vecchiesi.
La stessa bottega è fonte di ispirazione (notate anche il differente dialetto per indicare alcuni degli stessi oggetti) anche per la poesia “Puglièsi” di Giuseppe Croce, alla ricerca dell’epoca bella dei pennini e inchiostri: Pennini, sigarette ar cioccolato, / er fojo protocollo quadrettato, / quattro sorprese, dieci figurine, / stelle filanti, maschere, palline… // “So’ diventato grànne…; c’è ’n compasso, / magari ch’è da poco?…nò?…ripasso…” / Me piacerebbe assài quell’areoplano, / e l’àlbo da diseggno de Fabbriano, // i sordati de piombo, ’na trombetta, / la penna stilografica a pompetta / pe’ quànno passerò a le superiori… / eppoi le liquerizzie, e li colori // co quell’astuccio blù, nòvo de zecca, / e tante caramelle, e lecca lecca, / bìje de vetro, tombole, Sciangài… / …èntra, te danno quello che vorài… // …ciavete i giorni che nun so’ più nostri, / l’epoca bella de pennini e inchiostri, / der fiocco bianco sur sinàle nero? / …infònno so’ l’istesso de comm’ero, // e l’istesso è la vetrina, co’ ste cose / che so’arimaste identiche, curiose… / càmbia la faccia ch’ariflette er vetro, / e sta valiggia che me porto dietro // pesa più assai de la cartella piena… / …e c’è ’na ruga de scoràta pena / traverso er vetro, e pare veramente / ’na riga nera su cartassorbènte.
Un passatempo consistente nel fare scomparire qualcosa alla vista di un bambino, approfittando della sua disattenzione si chiamava stuflù stuflù e si diceva scherzosamente: Stuflù stuflù, c’era’na vorta mon nun c’è più.
 
4.4 la gastronomia
 
Carlo De Paolis è autore dell’interessante e informatissimo libro intitolato Breviario di Cucina civitavecchiese, le cui ricette sono riproposte anche sul sito www.storiacv.etruria.net. Tra di esse ne abbiamo scelto alcune.
Tra le zuppe – Zuppa di pesce: piatto tipico di Civitavecchia, il suo segreto consiste, oltre che nella freschezza e nella qualità dei prodotti impiegati, nell’arricchirne il sapore mescolandovi durante la cottura un brodo ristretto, preparato a parte con il pesce di piccola taglia (mazzumaja), opportunamente filtrato (come per la minestra di pesce). Si fa soffriggere aglio, abbondante olio e peperoncino; poi si mette il polpo e si aggiunge un po’ di vino, lasciandolo evaporare; quindi si unisce il pomodoro a pezzi e il prezzemolo, facendo cuocere il tutto per un poco; a questo punto si mette nel tegame il pesce che necessita d’una cottura più lunga (sparnocchie, cappone, scorfano, coccio, ecc.); si aggiunge il brodo di mazzumaja (o un po’ d’acqua) e si porta a ebollizione. Da ultimo si mettono i pesci più teneri (sarago, fraulino, ecc.) e i frutti di mare precedentemente aperti; si aggiusta di sale e si termina la cottura. La mazzumaia era venduta fino al tempo della seconda guerra mondiale dai “pesciaroli” girovaghi al prezzo di un soldo al piatto. L’ultimo di codesti personaggi che nel corso dei secoli si sono avvicendati per le strade cittadine con lo spasino del pesce in testa, gridando “Pescio vivo!” oppure “Sciabbichello uéh”, è stata una popolana, che la memoria collettiva ricorda, semplicemente col nome di battesimo, come “Zi’ Lucia. Il poeta Igino Alunni, così la ricorda:
Da ragazzino c’era ’na migragna / e girava ’na fame così nera / che spesso s’arrivava a tarda sera / dicenno: se fa notte e nun se magna. // E l’unica speranza che ce stava / adera zi’ Lucia la “Pesciarola” / che co’ ’na spasa fatta a bagnarola / venneva a un sordo er pesce e ce sfamava. // Un sordo ar piatto! Te ricordi Nina? / Tutto pescetto fresco de paranza, / ’na zuppa, ’na minestra in abbondanza / e annamio a letto co’ la panza piena.
De Paolis nel suo Breviario… riporta anche la ricetta dei “Merluzzetti di Civitavecchia alla pescatora” tratta dal libro Roma in cucina di Carnacina e Buonassisi (Merluzzetti, da circa 200 gr ciascuno, aglio, olio, pomodoro tritato, prezzemolo tritato, sale e pepe. Pulire i merluzzi ed allinearli in una teglia con un soffritto d’aglio, pomodoro e prezzemolo; condire con sale e pepe, coprire la teglia e cuocere per circa 10 minuti a fuoco moderato).
Acquacotta alla pecorara: si mettono a cuocere acqua, patate tagliate a fette spesse, due o tre spicchi d’aglio, un pezzo di peperoncino, mentuccia e sale. Quando le patate sono cotte si versa la zuppa sulle fette di pane tostato e si condisce con olio a crudo e, a piacere, con alcune gocce di succo di limone. Una variante più ricca consiste nell’aggiungere alle patate il baccalà tagliato a pezzi. La variante più povera, detta acquacotta a la sfuggita, si prepara invece senza patate ma soltanto con aglio e/o cipolla, peperoncino ed eventualmente pomodoro. I versi del poeta civitavecchiese Cesare De Fazi ce ne tramandano il ricordo, insieme a quello delle difficoltà che le madri di famiglia dovevano affrontare quando non c’era lavoro al porto (Pe’ n’acqua cotta tengo l’ajo appena / de pane e ojo è votà la credenza). Dell’acquacotta alla pecorara non si spreca niente e viene utilizzata perfino l’acqua di cottura che sopravanza: questa rimanenza, infatti, l’indomani mattina cambia nome e diventa  Paradiso (cioè: fette di pane bagnate con l’acqua di cottura dell’acquacotta, condite con olio a crudo e sale. Un tempo una prelibata colazione o merenda, assaggio in anteprima della cena). L’estemporaneo pasto che vi si prepara è da considerare veramente un “paradiso”, rispetto al “purgatorio” della normalità, ed è stato fonte di ispirazione di Cesare De Fazi: E pe’ fa colazione / c’e pane azzuppo all’ojo, sale e acqua.
Bujòne (zuppa di castagne secche o mosciarelle) Mosciarelle bollite in acqua aromatizzata con l’alloro e con l’aggiunta di fichi secchi (da togliere prima di servire). Come sottolinea Igino Alunni, il bujòne era il pezzo forte della cucina povera d’un tempo: Stateve carmi fiji se ’sta sera / rimagnerete ancora mosciarelle, / mamma cià queste sole, fiji belle, / pazzienza! Finirà ’sta fame nera. / Ciavete fame? Nun piagne Raffaele, / pe’ carità che mamma se dispera, / Cristo che tribbolà e su questa tera / che brutta cosa a nasce poverelle. / Domani mamma va a fa’ la bucata / e co’ li sordi ch’avrò guadagnato / ve la farete ’na bona magnata.
Tra le minestre: Minestra con l’arzilla. Si segue la stessa procedura della minestra con la mazzumaja, con la sola differenza che l’arzilla non va schiacciata e la sua carne viene utilizzata come secondo piatto.
Minestra di pesce finto (senza pesce). Si fa soffriggere aglio, olio e prezzemolo; poi si aggiunge pomodoro e si allunga con un po’ d’acqua portandola a ebollizione; infine si versano i tagliolini o gli spaghetti spezzati.
Minestra di pesce sfuggito (con un sasso di mare). Seguire la stessa procedura della minestra di pesce finto, con la sola differenza che insieme al pomodoro e al prezzemolo si unisce anche un sasso ricoperto di alghe preso nel mare. L’usanza di utilizzare un sasso di mare per dare sapore era un tempo assai diffusa, e molte famiglie mettevano un sassetto anche quando la minestra veniva cucinata con vero pesce.
Tra le paste asciutte: Spaghetti con le rampatelle (cioè: patèlle o scodelline). La rampatella, perché risulti saporita e commestibile, deve trovarsi sotto il pelo dell’acqua e viene staccata dagli scogli. La carne si può mangiare cruda ma è utilizzata soprattutto per condire gli spaghetti all’uso civitavecchiese, preparando un soffritto classico con aglio, olio e peperoncino; unendo le rampatelle (prima private del guscio in una padella sul fuoco), aggiungendo vino bianco e lasciandolo evaporare; completando eventualmente con il pomodoro (molti preferiscono questo piatto in bianco) e con il prezzemolo.
Tra le pietanze di carne: Coratella con i carciofi. Far soffriggere nell’olio molta cipolla fresca, aggiungere la coratella (l’insieme di fegato, reni e cuore degli ovini e dei bovini) di abbacchio a pezzetti e far cuocere lentamente con vino bianco. A parte rosolare in padella, con sale e pepe, i carciofi tagliati a spicchi. Unire i carciofi con la coratella ed amalgamare.
Palombacci in salmì. Rosolare nel tegame, con olio, sale e pepe, i palombacci (o piccioni) tagliati a pezzi. Farli cuocere aggiungendo un bicchiere di vino rosso e brodo. Preparazione del salmì (per due palombacci): macinare due etti di cicoria, un etto di olive verdi snocciolate, tre alici, un etto e mezzo di prosciutto, due salsicce bianche, due radiche gialle, tre spicchi d’aglio, una cipolla, salvia, rosmarino, prezzemolo, pèrza (maggiorana), una buccia di limone intera; predisporre il macinato in un tegame, unendo gradualmente un po’ di brodo. In un altro tegame rimestare a freddo un quarto di vino nero e poco olio. Unire, infine, il tutto ed amalgamare. Per i crostini del salmì le fettine di pane vanno fritte nell’olio. Tipico piatto del mese di ottobre, epoca del passaggio dei palombacci nella zona di Civitavecchia.
Tra i fritti: Pesce fritto. Un tempo la frittura si preparava con il pesce di piccola taglia che di volta in volta veniva catturato (normalmente con la canna si prendevano vope, lappere, micci de re, bavose, saraghetti, ecc.). Oggi occorre rivolgersi ad un rivenditore di fiducia e tener presente che una buona frittura prevede l’utilizzazione di merluzzi, triglie, sogliole, melù, soacie, calamari, seppiette, totani e piccoli polpi. Il pesce si pulisce, si asciuga bene, si infarina e si frigge in abbondante olio bollente.
Tra le pietanze di pesce: Polpo affogato. Occorrente: polpetti piccoli o medi possibilmente di scoglio. Mettere a fuoco nel tegame aglio, olio, peperoncino e un ciuffo di prezzemolo; aggiungere eventualmente il vino bianco e lasciarlo evaporare. Si uniscono i polpetti e si lasciano cuocere ben coperti (molti aggiungono un foglio di carta straccia tra il bordo del tegame e il coperchio per evitare al massimo la dispersione dei vapori), con il gas basso, per circa mezzora. Polpo alla luciana. Occorrente come per il polpo affogato. Si mettono a cuocere in un tegame aglio, olio, peperoncino, pomodori rossi, prezzemolo e mezzo bicchiere di vino. Si aggiungono i polpetti e si lasciano cuocere ben coperti per circa un’ora.
Tra i dolci di Natale (le ricette sono nel sito prima citato), segnaliamo i biscottini, le ciambellette, la nociata, il pangiallo, il torrone, i tozzetti; tra quelli per il carnevale: le castagnole, i ravioli con la ricotta, le fregnacce. Tra quelli pasquali: la pizza di Pasqua (dolce civitavecchiese per antonomasia, e l’usanza di accompagnarlo con la tradizionale colazione pasquale ha travalicato i confini comunali diffondendosi in particolare nelle case romane, come testimonia lo scrittore e critico d’arte Mario Verdone: “Sulla tavola apparecchiata sono già pronte le tazze fumanti del cioccolato. Inoltre pizze di Civitavecchia, dove prevale il sapore degli ànaci, salami di diverse qualità, già tagliati, dominati dalla corallina, e vassoi di uova sode. Tra poco arriverà un altro piatto tradizionale, che è ancora sul fuoco: coratella e carciofi”.
I biscottini di Santa Fermina sono un dolce di recente origine, creato dal panificio Scafuro in via Tarquinia aderendo ad una idea lanciata dal Comitato per i festeggiamenti in onore della Santa, Patrona della città. Ingredienti: uova, anice, Sambuca, margarina, zucchero, lievito Bertolini, farina, vaniglia, cocco e aromi naturali. Le dosi non sono conosciute. Per l’Ascensione un tempo era assai diffusa (oggi è reperibile con difficoltà presso i pastori) la gioncatina con la cannella (una specialità gastronomica a base di latte rappreso, con consistenza di crema densa, di gusto delicato e di colore bianco, che differisce dallo yogurt perché non è acidula. Per San Giuseppe l’uso è quello delle frittelle.
Un dolce anche per i defunti, le fave da morto (Una delle tante ricette. Ingredienti: 125 grammi di mandorle dolci, 40 grammi di mandorle amare, 200 grammi di farina, 5 grammi di cannella, 20 grammi di burro, 190 grammi di zucchero, mezza cartina di lievito, acqua quanto basta. Pelare, asciugare bene e tritare finemente le mandorle; aggiungere lo zucchero, la farina e da ultimo il lievito, mescolando bene fino ad ottenere un impasto morbido; preparare sulla spianatoia le tipiche forme circolari e schiacciate delle fave da morto; ungere una teglia con il burro, spolverarla di farina e adagiarvi le fave. Mettere a cuocere in forno a fuoco moderato.
Piatto un tempo molto popolare, la pizza di polenta aveva anche ispirato queste strofette satiriche: Tiritalla tiritalla / il prete sona e la serva balla / e si ar prete je va bbona / er prete balla e la serva sona. / Tiritalla tiritalla / morirai senza assaggialla… / la pizza con zubbibbo calla calla.
Tra i liquori: innanzitutto e soprattutto, Sambuca. La Manzi (leggermente più secca) o la Molinari (leggermente più amabile). Il classico liquore civitavecchiese, ricavato dalla lavorazione del fior d’anice, si può gustare con ghiaccio, nel caffè, oppure liscio con o senza “mosca” (chicco di caffè tostato). Creata da Luigi Manzi nel 1851, e lanciata a livello internazionale da Angelo Molinari a partire dal 1945, la Sambuca è apprezzata non solo per il gradevole sapore e per il raffinato bouquet ma anche per le sue qualità digestive e carminative. Inutile tentare di produrla in casa perché gli ingredienti e il loro dosaggio sono tenuti nel massimo riserbo, e costituiscono quell’impenetrabile “segreto” che riesce a trasformare una comune anisetta nella famosa Sambuca di Civitavecchia.
E il Liquore Patria, liquore dolce civitavecchiese (ormai non più prodotto) che fece epoca negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Creato dal compianto Achille Betti, chimico e farmacista storico della Civitavecchia dei primi decenni del Secolo, grazie al colore degli ingredienti utilizzati ed al loro diverso peso specifico tendeva a depositarsi in modo tale da formare tre strati sovrapposti che richiamavano rispettivamente il bianco, il rosso e il verde della bandiera italiana. Tra i liquori casalinghi citiamo il Liquore di merangole (arance amare), il Liquore di cedrina (con foglie di cedrina) e la Porrazza Liquore medicinale popolare, un tempo assai usato come digestivo, ottenuto dalle piante di asfodelo molto diffuse in tutto il litorale maremmano. La Porrazza è ormai praticamente scomparsa, ma il suo nome e il suo uso nella nostra città è tramandato, oltre che da diversi modi di dire dialettali, anche da una strofetta che si cantava agli inizi del secolo: Se bevi la Sambuca / ti sbuca ti sbuca, / se bevi la Porrazza / t’ammazza t’ammazza.
Il poeta Igino Alunni così descrive la pizza di Pasqua di Civitavecchia: La pizza che se fa a Civitavecchia / sotto la Pasqua, è cosi combinata: / zucchero, ova, cannella, cioccolata, / vino speciale de riserva vecchia; // ricotta, farina, anice stellata, / e su base de ’na ricetta vecchia, / olio de semi, burro e poi ’n’antecchia / d’arkermes e vaniglia zuccherata. // Da secoli la fanno pasticceri, / donne de casa e pure li fornari, / perché sia cosi bona ’n so’ misteri! // E quanno la magnamo a colazzione, / pe’ Pasqua, assieme a i nostri famijari, / ce s’empie er core de sodisfazione.
Nel sito, https:////www.storiacv.etruria.net/pizzap.html, oltre alla ricetta vengono citati anche alcuni versi di Ugo Marzi e il riferimento al libro da cui sono tratti: Civitavecchia in punta di forchetta, edizione 1990. Gli ingredienti vanno preparati con molta attenzione fin dal giorno prima, come ci ricorda U. Marzi: Si, dioneguardi, sbaji in ’sti momenti, / presempio,… un quarzivoja, un ovo guasto, / quanno che vai a magnalla so’ accidenti, / senza penzà che ’r gusto ’n c’e rimasto. La lievitazione della pasta e un altro momento delicatissimo. Le donne usavano disporre i testi su un letto e coprirli con pesanti coperte di lana e l’attesa della lievitazione era un rito. Si rimaneva sveglie tutta la notte, spiando la pasta che cresceva e scaldando le coperte esternamente con un ferro caldo in modo da non far scendere la temperatura sotto le coperte. Era sinceramente una gran fatica come ci ricorda ancora Ugo Marzi: Questa e ’n’ammazzatura, sarvognuno / si tanto me da’ tanto, ciarimani. C’era un misto di fatica e di passione nel fare questo dolce tradizionale ma tutta la fatica veniva per incanto dimenticata nell’ora “de la sciorta della Gloria” quando la pizza veniva servita a tavola insieme alle uova sode, il salame, la coratella con i carciofi ed un buon bicchiere di vino per la colazione pasquale.
Ed ecco come ci descrive il cenone natalizio Igino Alunni: Tant’anni fa la sera de Natale / doppo sentita l’urtima funzione / tornamio a casa pronti per cenone / che a queli tempi era proprio speciale: // spaghetti coll’alice, capitone, / pesce fritto, baccalà staggionale, / anguilla carpionata, poi caviale, / nociata, dorci e vino a profusione. // Le nostre madri, allora, poverette / facevano risparmi tutto l’anno / pe’ comprà’ robba e fa le ciambellette. // Doppo la tombolata a mezzanotte, / annamio incappottati ar mattutino / per ringrazià’ er Signore, e buonanotte.
 
 
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
 

Il poeta Ugo Marzi alle tre collane di sonetti La Pricissione der Venardì santo. Sonetti romaneschi (1981), ’Na botta ar cerchio e una… a chi dich’io. Sonetti romaneschi (1983), Mamma, li turchi. Sonetti romaneschi (1986), fece seguire un lungo intervallo in cui egli si dedicò al teatro scrivendo drammi, ancora in romanesco (L’anima de li morti… nostri, 1985, Tacchi e mezze sole, 1986, Puzza d’abbruciato, 1988) ma anche in italiano (una sceneggiatura della sveviana Senilità, 1993, La voglia del diavolo, 1996, Anima, 1997), tutti dignitosamente rappresentati da compagnie amatoriali a Roma.
Tacchi e mezze sòle, commedia in romanesco scritta e musicata da U. Marzi, rappresentata a Roma nel 1985 da una compagnia amatoriale, regia T. Sbardella (l’autore recitava nel ruolo del protagonista); Puzza d’abbruciato, in romanesco, scritta e musicata da U. Marzi, rappresentata a Roma nel 1988 e a Civitavecchia nel 1989, da una compagnia amatoriale (l’autore era regista e recitava); L’anima de li morti nostri, commedia in romanesco scritta e musicata da U. Marzi, rappresentata a Civitavecchia nel 1988 da una compagnia amatoriale, regia Giovanni De Paolis; Senilità, sceneggiatura del romanzo di Italo Svevo, in italiano, testo e musiche di U. Marzi, rappresentata a Roma nel 1993 da una compagnia professionale, regia di M. Amici; La voglia del diavolo, in lingua italiana (sul processo a Bellezza Orsini, accusata di stregoneria a Roma), scritta da U. Marzi, musiche di N. Citarella, rappresentata a Roma nel 1996 da una compagnia professionale, regia L. di Majo; Anima, monologo in lingua italiana, testo di U. Marzi, musica di G. Terranova, rappresentato a Roma nel 1998, da una compagnia professionale, regia P. Maffioletti; I pastori, da una sacra rappresentazione del medioevo anglosassone, in lingua italiana, rappresentata a Roma nel 1999 da una compagnia amatoriale, regia U. Marzi. 
 
6. I testi di poesia
 

A Civitavecchia è da sempre esistito un vasto sostrato di poeti, di molti di essi dà notizia Carlo De Paolis che mette alla berlina in Còre citavecchiese il pullulare di poeti in “Tutti poeti” (D’artronne pure a Roma ce sta scritto / che de poeti semo ’na nazzione / ch’ogni itajano è vate de diritto). E segnala in “Bisturi e penna” due poeti di indubbio valore i medici-poeti o, forse, poeti-medici Giuseppe Croce e Ugo Marzi che ogni tanto si sfilano il camice e indossano il ferraiolo (mantello a ruota degli artisti di un tempo) e mettono li sogni in libbertà, perché l’animo umano adè come’n gaimóne (gabbiano).
Nelle pp. da 10 a 16 del libro di Cosma Siani Poesia dialettale nella provincia di Roma. Civitavecchia – Periferia urbana – Monti Lucretili, c’è un’ampia trattazione della vita e dell’opera del poeta e commediografo Ugo Marzi (Civitavecchia 1937-Roma 2001) e nella sezione antologica (pp. 37-47) sono riportati sonetti e poesie, tratti dalle sue opere: La pricissione der Venardì Santo. Sonetti romaneschi (Intr. e cenni storici Giovanni De Paolis, Ill. Giuseppe Marzi, Civitavecchia, e. e. 1981); ’Na botta ar cerchio e una… a chi dich’io. Sonetti romaneschi (Intr. Giovanni De Paolis, Civitavecchia, s.e., s.d. [ma 1983]); Mamma, li turchi. Sonetti romaneschi (Pres. Anne-Cristine Faitrop, Intr. e note storiche Giovanni De Paolis, Ill. Ennio Galice, Civitavecchia, s.e., 1986); Gaimoni (Pref. Cosma Siani, Roma, Bulzoni, 2003).
Altri poeti civitavecchiesi sono: Igino Alunni, Claudio Arciprete, Renato De Paolis, Titta Marini (di Tarquinia), Balilla Mignanti (di Tolfa-Allumiere), Felice Tazzini (capomastro e poeta a braccio di Civitavecchia): di questi autori notizie e poesie sono collezionate in Carlo De Paolis, Core civitavecchiese, Roma, Nuova Impronta Edizioni, 1996 e nel fascicolo Raccolta di brani presentati in occasione dell’incontro con il dialetto civitavecchiese, pres. Pietro Rinaldi, Civitavecchia, “Città Nuova”/Movimento politico e culturale di interesse locale, 1977.
Nel ponderoso volume (dedicato al poema epico in sei canti L’Assedio di Civita Vecchia di Arcangelo Nicolao Di Giovanni) Le 82 Giornate di CivitavecchiaUn manoscritto inedito sull’insurrezione antifrancese del 1798-99 – Nascita della poesia epica – Affermazione della moderna civitavecchiesità, Carlo De Paolis, che alterna la produzione poetica con la ricerca storica, dedica alcune pagine alla tradizione dei poeti a braccio di Civitavecchia che traggono spunto oltre che dai poemi eroici anche dai temi delle lotte operaie, dell’anarchismo e della politica.
Egli ricorda l’oste Aristide Ferrari, soprannominato Gallinella, un noto poeta a braccio della fine dell’Ottocento, gestore di una mescita di vino in Seconda Strada che rilanciò l’antica tradizione natalizia locale della “Pastorella”. Di lui De Paolis riporta due versi, appresi da suo padre Renato, che l’oste era solito cantare a conclusione di un’ottava improvvisata: Regalate du’ soldi a Gallinella / ve fa sentì la mejo pastorella.
All’inizio del Novecento operavano: un non meglio identificato Ceccutello, che cantava tutte le sere nelle osterie cittadine, il calzolaio Giggi Troiani, il ferroviere Angelo Fulvi e il muratore Arideo Grani. Il massimo esponente dei poeti a braccio fu però unanimemente considerato Angelo Pezzi (Civitavecchia 1889-1963), vincitore tra l’altro di un concorso regionale del 1929 che vide la partecipazione di 25 artisti di tutto il Lazio e della gara tenuta a Roma, in Trastevere nell’edizione del 1930 della tradizionale Festa de Noantri.
Suo degno continuatore è stato Felice Tazzini (Civitavecchia 1915-2001), vincitore anche lui di numerosi premi, che ha improvvisato ottave in Italia e in Francia (dove è emigrato per alcuni anni) e ha rappresentato per molti anni la più alta espressione della poesia a braccio a Civitavecchia, tra le migliori del Lazio. Ha pubblicato il meglio della sua produzione in diverse raccolte (tutte con Prefazione di Carlo De Paolis) tra le quali: Ieri e Oggi, Civitavecchia, 1980 e il Sesto canto dell’Eneide in ottava rima ed altri versi, Civitavecchia, 1993, 2ª edizione 1995 e una traduzione in ottava rima dell’Odissea di Omero.
La morte precoce ha purtroppo interrotto l’interessante esperienza del più giovane Mario Diottasi (Civitavecchia 1924-1968).
Igino “Gino” Alunni è autore delle raccolte Lassa sta! Chi se ne frega, Vecchio e novo, Tutta robba nostra. I suoi versi graffianti e scanzonati rappresentano molto bene gli anni a ridosso della seconda guerra mondiale. In Còre citavecchiese, C. De Paolis riproduce quattro poesie variamente dedicate al tema dell’Inps ed alla sua evoluzione fino all’uso dell’informatica: “Pensionato de la Previdenza sociale”, del 1950 (Io tengo sarvognuno un brutto male: / vivo co’ quattromila lire al mese / che me da la Provvidenza sociale; ironico scambio con Previdenza per indicare la provvidenzialità della somma, ancorché esigua); “Li pensionati de la Previdenza sociale”, del 1967 (Se fò er bilancio de quanto guadagno, / pago li buffi e faccio poi le spese / mica ciarrivo a la metà der mese! / E l’antro rimanente dove magno?); “La previdenza sociale” del 1977; “L’elettronica” (E ’st’apparecchio de gran precisione / che se chiama cervello elettronico, / l’Impise ce conteggia la pensione). Nello stesso libro sono riportate, messe a disposizione di De Paolis dall’amico prof. Renato Foschi, altre quattro poesie inedite di Alunni di “protesta antigovernativa”, ancora oggi per molti versi attuali. Ai partiti (“La sovvenzione a li partiti”) i soldi non bastano mai e cianno raggione / e fanno bene a fasse ’st’aumenti, / tanto chi paga è sempre Pantalone; è del 1973 “Che collèra! (colera)”, ma le cose non sono affatto cambiate rispetto ad allora: Cor granne schifo che vedemo adesso / povera Italia! Che sei diventata? / Un monnezzaro, ch’er collèra stesso / diventa ’na puzzetta ’na bojata. Cambiano i governi, ma tutto il resta non cambia (“Economia e contro economia”): Riforma sanitaria, ticche e tacche (cioè: ticket), / equo canone, codice fiscale, / IVA più tasse, crisi generale, / promesse che so’ chiacchiere, patacche. // Una tantum ogni tanto, sprechi, cacche, / magnata d’areoprani (scandalo Loocked) annata male, / ingiusta assegnazione pensionale, / bilancio sempre sotto (semo ar cracche). // Fabbriche chiuse, Cassa integrazzione, / scioperi, peculato, concussioni, / miseria, fame, disoccupazione. // Ecco come se sta co’ ’sto Governo / che nun è bono a pijà posizzioni / pe’ liberacce da tutto’st’inferno. Infine la critica ad una legge “L’equo canone” approvata nel 1978: Strillava ieri l’avvocato Gatta: / – Co’ ’sta Legge nun se combina gnente! / Nun la capisce manco chi l’ha fatta! –.
Alberto “Claudio” Arciprete, operaio fin da adolescente è autore di versi che nonostante la grammatica e la sintassi traballante si fa apprezzare per i contenuti di semplice e spontanea umanità, espressi in un dialetto genuinamente civitavecchiese.  In còre citavecchiese, C. De Paolis riporta due sue poesie, entrambe dedicate a lui, la prima elogiativa del “Dottor Depaolis Carletto” (“Er funzionario onesto ar posto giusto”). La seconda invece esalta, già nel titolo, “La costa de Civitavecchia de ’na vorta”:
A Carlé / io che de te so’ nato prima / te voio dedicà quarche rima / p’aricordatte com’era er mare nostro de ’na vorta / quanno cellavemio fora de la porta. / Indó sta più er Paese nostro attaccato ar mare / fatto de tramonte d’oro e d’arbe chiare? / Er sole quanno che calava a mare / s’accennevino le luce de tante lampare / se sentiva er canto triste de le marinare / che pescavino l’alice dentro st’acque chiare. / Nun c’erino tutte ’ste cimignere / s’arispirava l’aria pura. / Er mare nostro fatto tutto de scojo e poca sabbia / mo ce sò serbatoie e cimignere, a noe è rimasto solo rabbia (…) Se li vecchi nostre dar Celo quaggiù dànno ’na guardata / direbbero “Pora costa de Civitavecchia, come t’hanno arruvinata!”. / Mo ciavemo tutte le mezze e tante comodità / ma co’ st’inquinamento a Carlé / mica è ’mber campà.
La sua poesia “Vecchio Pirgo” fu da lui declamata ai microfoni dell’emittente Tele-Civitavecchia il 12 settembre 2000.
Fernando Barbaranelli, poeta, archeologo e storico, ha pubblicato alcune raccolte di poesie dialettali, tra cui una silloge di 120 poesie scritte dal 1932 al 1961 e pubblicato nel 1961, Tempi passati, che prende il titolo dall’ultima omonima poesia. Essa è la struggente reazione sentimentale alla scomparsa del quartiere “Prima Strada”, dove il poeta ricorda:
ciò passato / er mejo tempo de la vita, ossia / infino al giorno ch’hanno bombardato / senza pietà, Civitavecchia mia. // Tutto è diverso, mo, tutt’è cambiato, / e nun ritrovo più la fantasia / pe’ scrive un verso: l’estro s’è affogato / in un gran mare de malinconia. // Er monno de quann’ero regazzino / era de tante catapecchie antiche / tra piazza d’Arme e piazza Camp’Orsino. // La guerra ha cancellato quer rione / ch’era racchiuso in quattro strade amiche / indò cojevo fatti e ispirazione.
Di lui riportiamo in Antologia una drammatica poesia sulla morte di un pescatore “bombardiere”.
Giuseppe Croce, dottore e poeta, è autore di Canti della Vecchia Città (Civitavecchia 1988). Nella prefazione al suo libro, dopo precisato che sono state composte tra il 1982 e il 1987, Croce afferma che esse vogliono rappresentare il suo
modesto ma intimo contributo a una migliore conoscenza della città in cui sono nato e in cui ho trascorso gran parte della mia vita; non certo un atto d’amore, anche se tale inattuale sentimento può talora affiorare tra le righe insieme al genuino rimpianto per quanto avrei potuto darle e non le ho dato, e a quanto avrei voluto avere da lei, e non ho avuto. Ma neanche critica ingenerosa ed estranea, o, peggio ancora, giudizio; pure se, all’osservazione e al contatto di quella che è la vita d’oggi in questa città, in linea del resto con quello che genericamente viene inteso come “progresso” nell’arco dello svolgere dei nuovi tempi, appare più che perdonabile tornare col pensiero ad altri momenti, nemmeno poi così lontani e diversi, in una Civitavecchia diversa e forse più amabile, che proprio dal giudizio attuale pare definitivamente emarginata e condannata all’oblio.
E dopo aver lamentato la cancellazione e la dispersione del patrimonio locale “merce non da poco”, si chiede:
che potranno ricordare, ove ne sentissero il bisogno, i nostri più giovani e disinvolti contemporanei della loro città, che di sicuro non è più la mia? Non proverò a rispondere, e poco varrebbe tentarlo; ho creduto però doveroso manifestare il mio atteggiamento frondista in questa raccolta di versi in dialetto che dedico ai civitavecchiesi veri, di ieri e di domani che per cause congeniali avrò sempre vicini… (…) nella raccolta non esiste trama poetica prefissata, ma solo un filo sottile che collega sensazioni, letture, memorie, in una loro spontanea traduzione, giorno per giorno.
E questo filo si snoda attraverso gli indelebili ricordi dell’infanzia nella bella “Marililli” che apre la raccolta: So’ nato ner palazzo der Sordone / e poi ce so’ crisciuto rigazzino / ar primo piano, quello cor balcone, / tre cammere, cucina, e lo stanzino… // co’ Massimo e co’ Franco, a via Cencelle, / sotto de casa, a sera, si era estate, / s’annava co li pattini a rotelle / a còre sur serciato…; e che risate // a piroettà e cascà come birilli… / quarcuno già pativa er primo amore, / io, m’aricordo, c’era Marililli… // Franco è avvocato, Massimo ’n’artista; / ciavèmo belle case, io so’ dottore… / e Marililli?… no, nùn l’ho più vista.
E poi ascoltando “La pastorella”, quella “cantilena dilicata” natalizia “che da tant’anni passa, eppoi va via, / e pare ch’è l’istessa, e nun è vero…” e poi la rievocazione dei tanti luoghi e personaggi che hanno fatto la storia di Civitavecchia, anche “Er Pirgo” quello mitico d’anteguera, / er Baggno de la ggente co li sordi… e oggi purtroppo, nonostante le ripetute promesse di rinascita, nulla è stato fatto per arrestarne il declino e l’ammalato grave adesso giace / come ’n relitto che nun trova pace, / ’na robba vecchia che nun vale gnente, simbolo di un’epoca “felice e rinnegata”.
Ma il “Quattordice de maggio” (la poesia è nella nostra Antologia), quello del 1943, resta la data che discrimina il prima e il dopo di una città, e con lei, anche quello del poeta stesso. La città allora “venne – ricorda l’autore – in gran parte distrutta dal primo bombardamento aereo che provocò migliaia di morti e di distruzioni irreparabili che ne sconvolsero definitivamente le nobili caratteristiche e l’antica, artistica struttura. Quasi nulla rimane oggi che possa ricordarcela com’era”.
Contro la Civitavecchia di oggi, Croce appunta in più di una poesia i suoi strali. Una per tutte: “P’esse città”: P’esse città un basta avecce er mare / cor porto mezzo stracco, er tribunale, / li sadeggnoli, er pesce, l’anisetta, / e Garibbardi dritto’n mezz’ar viale; / ciamànca quarche piccola cosetta… // … capològo de che?… ma si me pare / che tutto tir’avanti a la ggiornata; / si fu provincia ar tempo der papato, / adesso punta d’esse nominata / provincia de li stracci, assieme a Prato… e dopo un’intemerata lunga parecchie quartine conclude: … e te saluto ar modo più distinto, / propaggine dell’afric’orientale; / e, a ripensacce mejo, m’hai convinto: / de sto casino, già sei capitale.
In Còre citavecchiese, il figlio Carlo pubblica un sonetto in dialetto del 1930 (“’N esiste più”) e una poesia del 1955 (“’Na vedova”) che alterna endecasillabi e settenari, del padre Renato De Paolis, informandoci che la sua produzione poetica è quasi interamente in lingua. I suoi non molti versi in dialetto si lasciano apprezzare “per i toni lirici che egli raggiunge in alcune composizioni popolari a lunga misura quali la notissima “Pastorella” (vedi nella sezione Canti di questo libro).
In occasione dei suoi cinquant’anni Carlo De Paolis ha pubblicato Sei sonetti caudati in dialetto quasi civitavecchiese “in uno stile – osserva Gaetano Salveti – sobrio e limpido: ed il pensiero vi spazia dentro affrontando gran parte dei problemi del quotidiano: la droga, il lavoro d’ufficio, la noia del vivere, l’amore del paesaggio (…) l’aspirazione al ricordo come una sorte di immortalità”. Come ad esempio in “Civitavecchia mia”: m’accojerai co’ le tue braccia granni / come papa Giovanni, scatenerai der mare l’ululato / e ’n fiore farai nasce sopra er prato.
Nell’esaminare la poesia di C. De Paolis è imprescindibile la “Nota dell’autore” premessa al suo Còre citavecchiese (di cui peraltro ci siamo serviti a profusione, traendo spunti e notizie dalla note esplicative, scrupolose e ben documentate, che accompagno i testi delle sue poesie e quelli di altri poeti civitavecchiesi che vengono trattati nel volume stesso). In essa egli afferma
“convinto che a Civitavecchia siamo come nel dopoguerra e che l’impegno fondamentale del poeta deve tendere ad evitare che vengano cancellati del tutto quei punti di riferimento che costituiscono il comune sentire di una popolazione; di porsi come strumento di rinascita civile e di servizio verso i concittadini, di recupero dell’identità che si è andata modificando, di riappropriazione della coscienza civica collettiva alterata analogamente ai diversi quartieri antichi distrutti dalle bombe angloamericane e ricostruiti con criteri architettonici privi di alcuna continuità col passato”. Quindi la sua poesia non sarà “intimistica, anacoreta” ma “di impulso etico e sociale” in cui “le parole d’ordine, che non devono essere disattese sono: ‘Amare Civitavecchia’, ‘Salvare Civitavecchia’, e presuppongono l’impegno da parte di tutti di sintonizzare la propria consapevolezza, la propria sensibilità ed intelligenza al servizio della città e della sua comunità”. E l’autore è convinto che i suoi versi (ma ciò vale anche per tutta la sua prolifica produzione pubblicistica) “possano suscitare interesse proprio per l’impegno in difesa della memoria storica, intesa come valore oggettivo e come espressione della nostra comunità, per meglio capire e gestire il presente, per progettare il futuro”.
Emblematica e focale per comprendere la sua poesia d’impulso etico e sociale è la poesia “L’ex città d’incanto”: Civitavecchia è ’na città d’incanto / ricorda la canzona de Giggetto / e der maestro Parma. Che rimpianto / a ripenzà, sortanto pe’’n pochetto, // ar Pirgo cor Pirghetto in controcanto, / l’Arzenale Bernini, e’ Lazzaretto, / er Grand Hotel termale, er vecchio Ghetto, / Santa Maria: ’n posto antico e santo // profanato da scarichi de cesso. Ed ecco che esplode l’invettiva contro i responsabili di questo decadimento, soprendente per la sua violenza, in un autore mite e amabile che condanna senza appello “le malafurniere” (come spiega in nota, “persone che non danno alcun affidamento, che non meritano alcuna fiducia; modo di dire usato specialmente dalla collettività civitavecchiese che abitava al Ghetto”): Io jé darebbe ’n par de cotolóne (dure percosse, tali da incrinare le costole) / a chi la città nostra ha manomesso, // capipopolo de bassa staggione / ch’ar momento der dunque, troppo spesso, / hanno sbajato scerte e dicisione. // Pure noe che minchione!: / mannamo avante le malafurnière / pe’ màgna e fótte, e nun avé penziere.
Rosario Lo Verme giustamente sottolinea come Carlo De Paolis “con le sue postille realizza un felice connubio tra prosa e poesia, dando concreta espressione a sensazioni, immagini, grazie all’incisività d’un linguaggio immediato che efficacemente illumina la pagina”. Infatti quelle che accompagnano la poesia prima citata si articolano in ben 18 pagine, con sapienti riferimenti letterari, linguistici, toponomastici, storici e con foto d’epoca che contribuiscono a creare una sorte di “granaio della memoria” civitavecchiese.
Conseguentemente al suo impegno civico, il poeta si ripromette pure: “di contribuire alla migliore conoscenza di alcuni aspetti attuali della cultura popolare cittadina ed in particolare del dialetto”.
Osserva giustamente nella prefazione alla raccolta di poesie I sogni incompiuti, Silvio Serangeli che quello di Carlo De Paolis è
un cuore antico, un sentire che si rinnova, torna ogni volta bambino, “quanno la marina s’inargenta”. È “er còre citavecchiese” che palpita fra i vecchi vicoli, davanti alle logore insegne “Vini e cucina”: “chiude bottega Giorgio co’ Verdiana / ’n artro pezzo de storia s’allontana / resta solo er ricordo de Argentina. / Tiempi belli ’na vota / diceva’n vecchio canto ghettarolo…”. È la lingua dei vecchi che trova nuova forza: “Schiaffi de mare contro la Marina, / schiumeggia l’onda ondeggia er peschereccio, / è vento de lebbeccio stamattina!” (“È vento de lebbeccio stamattina”); “…barbotta sminchionata ’na funtana / li vecchi se riscallano a solina…”  (“Cielo terso color de tramontana”); “Trasmutano li gialli de limone, / albo, alabastro, malva, cinerino, / avorio, ardesia, lacca der Giappone, / aranciati velati de turchino, / riflessi ambrati, sbaffi de carbone (“Pomeriggio a corso Centocelle”). Un crescendo che si colora come un acquerello delle immagini della città, che diviene più intenso nei toni con la natura prorompente, ed il pennello accarezza le tinte più lievi dei sentimenti: “Ner zilenzio notturno che t’incanta / un’onda sperza arriva lenta lenta / sbatte, sfragne, risucchia, se lamenta. / Trema, sbava de spuma e se imbrillanta” (“Notte civitavecchiese).
Dalla raccolta citata nella nostra antologia proponiamo “Pomeriggio a Corso Centocelle” che smentisce senz’altro l’appello del poeta: Non chiamatemi storico e poeta / io sono un pittore mancato… Citiamo anche la deliziosa “L’abbojelo”: Ner bosco mezzo buio / in un cespujo / fa capoccella er primo / sorriso der mattino / ’n abbòjelo se stira co’ recrìo, / è mio! (Abbòjelo: nome che viene dato sui Monti della Tolfa alla pianta chiamata a Civitavecchia rafano, discorea che cresce nei boschi e nelle siepi della regione mediterranea; il nome lessicale è “tamaro”, Tamus communis).
Silvano Maerini, in “La Chiesa matrice de Santa Maria” tratta dalla sua raccolta poetica Porta Livorno, ci offre questa efficace descrizione di personaggi civitavecchiesi:
Stracorma de gente la chiesa s’affollava, / la famìa Guida er sor Ciro Lancia / er medico chirurgo dottor Bernabbai / nce mancava mai / de’ vorte stava a servì messa, / e’ genitore de noiartre cresimanti / stavino davante su le banche / dietrannone vestite bene ’e scicchettose / peffà ’n figurone assieme ae cresimante, / er mantice lo smove er sor Peppe / respirava quell’aria che ss’avvia leggera / all’organo dov’er maestro Domenico De Paolis* / la fa surtì dae canne sfarzanno / note in melodia celeste / mista ’ncoro c’unisce riempenno er vòto / de calore umano.
* Il Domenico De Paolis (Civitavecchia 1862-1943) evocato da Maerini è il nonno, morto nel tragico bombardamento di Civitavecchia del 14 maggio, di Carlo De Paolis.
Numerosi altri sono i cultori della poesia in lingua e in dialetto che fanno capo agli Incontri culturali organizzati dal Presidente degli stessi Franco Rosati con l’insostituibile collaborazione del prof. Luciano Pranzetti. Agli Incontri culturali fa capo anche Premio di poesia Romanesca “Quanto sei bella Roma”.
 
 
ANTOLOGIA

FERNANDO BARBARANELLI
 
C’era un prato de cefole e Giggetto
che stava a prua der vuzzo de zi’ Ntogno,
appenna li smicciò, come ’n demogno,
cercò immezzo a le rezze er bucaletto
e accese er miccio. Ma, fio benedetto,
cor pescio proprio lì c’era bisogno
de stacce a pensà su? Me pare ’n sogno;
je scoppiò in mano e lo squartò de netto.
Zi’ Ntogno, poveraccio da lontano
incominciò a strillà verso de noe
che venimio voganno piano piano.
Lo pijassimo a bordo: era già morto.
Lo coprissimo co’ ’na tela, e poe
vogassimo diretti verso er porto.
 
 
GIUSEPPE CROCE
 
Quattordice de maggio
 
Quattordice de maggio; è primavera,
appen’appena er vento increspa er mare…
er porto s’arinfresca mentr’aspetta
che parteno le navi quann’è sera;
se fà ’na sigaretta ’n militare
scennenno dar bastione a la scaletta.
Butta la lenza dell’antemurale
un ragazzetto co la maja a strice…
co la carozza vòta ’n vetturino
da la stazzione core verso er viale…
un sardeggnolo maggna pane e alice
all’osteria der Ghetto, e aspetta er vino.
Ar gradhotèl quarcuno ancora pranza
ner vòto der salone principale;
s’aspetta er bollettino co’n pò d’orzo
pe’ nun capì che more la speranza…
saprà de poco, ma nun pò fà male
co’’no schizzetto d’ànnice a rinforzo.
Un bersajere aspetta la partenza
sur molo der Bicchiere…; và ’n Sardeggna
co’ tutti l’antri de la compagnia.
Quann’è ch’ha’vuto l’urtima licenza?
A dieciottanni er viso je se seggna
già co’’na ruga de malinconia.
Co’ ’na palla de stracci ’n regazzino
tutto sudato gioca ner cortile…
s’affaccia ’na siggnora dar balcone;
j’è parso che la chiama ggiù er postino,
er fijo nuje scrive più da aprile…
ma è stata solamente ’n’illusione.
In quer momento er tempo s’è fermato;
dar tepore de maggio, sordo, sorte
e s’avvicina ’n rombo de motore,
e come ’n serpe freddo, srotolato,
striscia dar cèlo l’angelo de morte…
e sta città, com’era allora, more.
… è annata via la ruga dar ber viso
der bersajere; pare che riposa
e vede la licenza che j’ariva…
…er regazzetto pesca ’n paradiso
ner mare der Siggnore…; sora Rosa
ha smesso d’aspettà ch’er fijo scriva…
…er vetturino, sott’a ’n cornicione,
s’è sfranto co’cavallo e co’carozza…;
stà sott’a la macerie ’n regazzino
ch’ha perso la partita de pallone…;
se sente ’n vecchiarello che singhiozza…
er sardegnolo s’è scordato er vino…
…la ggente dell’arbergo ar lungomare,
senza piaggne e capì, làssa sta vita
co’’na tazzina d’orzo e d’anisetta…
par’appoggiato ar muro er militare
e regge ancora stretta tra le dita
la cicca spenta de ’na sigaretta.
Bevenno er vino nòvo all’osteria,
quer giorno se lo sèmo ’n pò scordato…
a me me l’ha ridetto ar cimmitero,
mentre spannava la fottografia
de ’n giovane ’n divisa da sordato,
’na donna ’nziana cor vistito nero.
 
 
CESARE DE FAZI
 
Il cacciachiodo*
 
(…) Chi creder non mi vuol pensi a suo modo
di quanto dirò a pro del cacciachiodo.
Fu nel milleottocentottantadue
ero monello, me chiamo ’r mi nonno,
senti a nipó, chi è povero a ’sto monno
le croce più pesante so le sue.
Pure festeggia quanno un fjo ie nasce,
come se fosse allor nato n’eroe,
ch’è n’illusione se ne accorge poe
quanno è lontano da quann’era in fasce.
(…) Non fu meno dell’artre er patre mio
quanno la matre mia m’ha partorito,
se mò me vede loghero e sfinito
sò stato allora festeggiato anch’io.
Logorato dar povero mestiere
lascito de famija er pescatore
se adero fjo d’un signore
ciavrebbe avuto un arte de piacere.
Invece a bordo a un vuzzo a scarza ordegno
carzone d’arlecchino e ’na maietta,
pe’ scarpe un par de zoccole de legno.
Un gobbo saricotto pe’ giacchetta
e a fa’ cor mare quanno se fa fregno
dar male tempo, che te dice, aspetta…
Se fae da sordo pe’ la miseria…ccia
rischie da perde ’r vuzzo e la pellaccia.
Er mi nonno, da vecchio me pareva
un Sant’Andrea, quanno adera festa
co’ la barbetta bianca, se metteva
la fascia nova cor zucchetto in testa,
solo la camiciola era la stessa
pronto p’anna ascortà la santa messa.
E ar doppo pranzo, se poteva spenne
le quattro sorde, annava all’osteria
da chi più a meno prezzo er vino venne,
e da stà a casa pe l’Avemmaria.
Prima de cena arringrazia er Signore
e la mattina arrifà er pescatore.
E nun s’allontanava più de quello,
da ponente a pescà fino ar Mignone
(le gite a piede su l’Arberobello)
e da levante intorno ar Marangone.
Morì dicenno er povero mi nonno
pe’ me, sto cerchio è stato tutto er monno.
Benché nelle prim’anne che se cresce,
ricordo bene quanno nonno è morto,
finì co lue a da la caccia ar pesce,
restò l’impegno del lavoro ar porto,
artro vecchio mestiere ereditato
fatto a sospire pe’ sbarcà lunario.
 
* Cacciare un male con il ricorso ad un altro male. Vuzzo: classica barca civitavecchiese, deformazione dell’italiano gozzo
 
 
CARLO DE PAOLIS
 
Pomeriggio a corso Centocelle
 
Vanno e vengono, fanno a inguattarella,
li chiaroscuri a corso Centocelle
er Sole se calómba a coppetèlla
p’annasse a pèrde in mezzo all’artre stelle.
Trasmutano li gialli de limone,
albo, alabastro, malva, cinerino,
avorio, ardesia, lacca der Giappone,
aranciati velati de turchino,
riflessi ambrati, sbaffi de carbone.
Annunci de ’n tramonto tormentato,
penombra, oscurità, cielo smaltato,
sprazzi de Luna nòva, luci accese,
machine incolonnate a serpentone
ell’aria che diventa manganese
tra nizze de semafori e perzone!
 
(se calómba a coppetella: si getta a capofitto a “palombella” movimento mutuato dal gergo calcistico per indicare la traiettoria che compie il pallone quando, colpito ad effetto, sale quasi verticalmente per ricadere alle spalle del portiere).
 
 
Cenni biobibliografici
 

Igino “Gino” Alunni (Civitavecchia, 1914-1982), poeta, ha pubblicato Lassa sta! Chi se ne frega (s.d.), Vecchio e novo (1973), Tutta robba nostra (1975).
Alberto “Claudio” Arciprete, (Civitavecchia 1930), operaio e autodidatta, dopo il pensionamento ha scoperto una vena poetica che si è concretizzata nella pubblicazione della raccolta Poesie e usanze civitavecchiesi alimentate da un pò di fantasia e tanto sentimento (1991).
Fernando Barbaranelli (1907-1978), poeta, archeologo e storico, ha pubblicato numerosi e importanti articoli su riviste a carattere nazionale e internazionale ed alcune raccolte di poesie dialettali, tra cui Tempi passati una silloge di 120 poesie scritte dal 1932 al 1961 e pubblicato nel 1961.
Giuseppe Croce (Civitavecchia 1933) poeta, medico, e autore della raccolta poetica Canti della Vecchia Città (1988).
De Fazi Cesare (Civitavecchia 1875-1967), unico esponente del cosiddetto dialetto “ghettarolo”. Ha pubblicato nel 1952 la raccolta Il cacciachiodo (Tipografia Moderna, Civitavecchia).
Carlo De Paolis (Civitavecchia 1934), è nato e vive a Civitavecchia. Laureato in Economia, è stato dirigente dell’Inps e presidente del collegio sindacale della Cassa di Risparmio di Civitavecchia. Numerosi sono i suoi
studi e ricerche sulla storia e le tradizioni della città. Autore di Sei sonetti caudati in dialetto quasi civitavecchiese, Roma, Crisi e Letteratura, 1984; Còre citavecchiese, Roma, Nuova Impronta Edizioni, 1996; I sogni incompiuti, Cassa di Risparmio di Civitavecchia, 2008; Le 82 giornate di Civitavecchia, “Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia”, 2002, comprendente la prima edizione del manoscritto (XVIII sec.) “L’Assedio di Civitavecchia”, il commento ed i riferimenti storici e un capitolo sulla “Nascita della poesia epica civitavecchiese”; Le 82 giornate di Civitavecchia, drammaturgia realizzata in collaborazione con il regista Pino Quartullo e rappresentata nel porto storico il 20 e 21 settembre 2008: nell’occasione il Comune di Civitavecchia, la Fondazione Cassa di Risparmio e la Direzione artistica del Teatro Comunale Traiano gli hanno conferito il “Premio Civitavecchia alla carriera” con la seguente motivazione: “A Carlo De Paolis, storico e poeta, per aver dedicato la sua vita e la sua generosa creatività alla Città di Civitavecchia”.
Renato De Paolis (Civitavecchia 1906-1975), padre di Carlo De Paolis, poeta e studioso della storia locale e animatore di molte associazioni cittadine, collaboratore dei quotidiani Il Momento, Momento Sera e Il Tempo.
Silvano Maerini, poeta civitavecchiese autore della raccolta poetica Porta Livorno, s.l. e s.d., ma Civitavecchia, 1996, dalla quale Carlo De Paolis a pp. 206-207 di Còre citavecchiese, riporta la poesia “La Chiesa matrice de Santa Maria”.
Ugo Marzi (Civitavecchia 1937-Roma 2001), poeta e commediografo, fece il liceo classico nella sua città natale, e l’università di medicina a Roma “La Sapienza”, laureandovisi nel 1969. Si specializzatosi in igiene e medicina preventiva, svolse la sua carriera come ospedaliero nella capitale, al Regina Elena. Qui visse tutta la sua vita, fin da quando si sposò, nel 1970, con la concittadina Assunta Olla. Nei primi anni ’80 gravitò con poca convinzione intorno al Centro Romanesco Trilussa. Appartato nel suo esercizio poetico; fu essenzialmente un solitario, e pubblicò le sue raccolte in forma privata. È autore di: La pricissione der Venardì Santo. Sonetti romaneschi (1981), ’Na botta ar cerchio e una… a chi dich’io. Sonetti romaneschi (1983), Mamma, li turchi. Sonetti romaneschi (1986), Gaimoni (2003).
Salvatore Ortu, la sua poesia “Addio vecchio Pirgo” è apparsa il 9 settembre 2000 sulla pagina locale del quotidiano “Il Tempo”. Ha pubblicato Verzi sparsi nel 2006.
Angelo Pezzi (Civitavecchia 1889-1963), portuale e massimo poeta a braccio di Civitavecchia.
Felice Tazzini (Civitavecchia 1915-2001), muratore e poi capomastro, ha improvvisato ottave in Italia e in Francia (dove è emigrato per alcuni anni, ha rappresentato per molti anni la più alta espressione della poesia a braccio a Civitavecchia e tra le migliori del Lazio). Ha pubblicato il meglio della sua produzione in diverse raccolte tra le quali: Ieri e Oggi (Civitavecchia, 1980) e il Sesto canto dell’Eneide in ottava rima ed altri versi, Civitavecchia, 1993, 2ª edizione 1995 e una traduzione in ottava rima dell’Odissea di Omero.
 
Bibliografia
Alunni, Igino, Lassa sta! Chi se ne frega, s.d.
Alunni, Igino, Vecchio e novo, 1973.
Alunni, Igino, Tutta robba nostra, 1975.
Arciprete, Alberto “Claudio”, Poesie e usanze civitavecchiesi alimentate da un pò di fantasia e tanto sentimento, 1991, 2ª edizione 1995, Civitavecchia in punta di forchetta, edizione 1990.
Croce, Giuseppe, Canti della Vecchia Città (raccolta di poesie dialettali), Civitavecchia, 1988.
De Fazi, Cesare, Le tempe so’ cambiate, Civitavecchia, 1958.
De Paolis, Carlo, Prime battaglie, 1948-1956, dattiloscritto, 1956.
De Paolis, Carlo, Sei sonetti caudati quasi civitavecchiesi, Crisi e Letteratura, 1984.
De Paolis, Carlo, Còre citavecchiese (versi dialettali e altri scritti), Roma, Nuova Impronta Edizioni, 1996 (II ed. 2000).
De Paolis, Carlo, Le 82 giornate di Civitavecchia, Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia, 2002.
De Paolis, Carlo, La pesca marittima a Civitavecchia in epoca moderna e contemporanea, Civitavecchia, Società Storica Civitavecchiese, 2006.
De Paolis, Carlo, I sogni incompiuti, Cassa di Risparmio di Civitavecchia, 2008.
De Paolis, Carlo, Sei storie per una pastorella, Civitavecchia, Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia, 2010.
De Paolis, Carlo, Breviario di cucina civitavecchiese, Civitavecchia, 3ª ed., Edizione Paola Vergati, 2009.
Maerini, Silvano, Porta Livorno, s.l. e s.d., ma Civitavecchia, 1996.
Marzi, Ugo, La pricissione der Venardì Santo. Sonetti romaneschi (Intr. e cenni storici Giovanni De Paolis, Ill. Giuseppe Marzi, Civitavecchia, s.e.,1981).
Marzi, Ugo, ’Na botta ar cerchio e una… a chi dich’io. Sonetti romaneschi (Intr. Giovanni De Paolis, Civitavecchia, s.e., s.d. [ma 1983]).
Marzi, Ugo, Mamma, li turchi. Sonetti romaneschi (Pres. Anne-Cristine Faitrop, Intr. e note storiche Giovanni De Paolis, Ill. Ennio Galice, Civitavecchia, s.e., 1986).
Marzi, Ugo, Gaimoni (Pref. Cosma Siani, Roma, Bulzoni, 2003).
Ortu, Salvatore, Verzi sparsi, Civitavecchia, 2006.
Siani, Cosma, Poesia dialettale nella provincia di Roma. Civitavecchia – Periferia urbana – Monti Lucretili
Tazzini, Felice, Ieri e oggi, Civitavecchia, 1980.

Tazzini, Felice, Sesto canto dell’Eneide in ottava rima ed altri versi, Civitavecchia, 1993; II ed. 1995.

 
 
webgrafia
www.storiacv.etruria.net
 
ultimo aggiornamento 28-01-2012