110 – TIVOLI

 

TIVOLI (49.316 abitanti, dettiTiburtini) a 235 m slm, sorge in una posizione strategica sulle pendici settentrionalidei Monti Tiburtini, a sinistra dell’Aniene, nel punto dove il fiume, con una serie di cascate, salta un dislivello piuttosto ripido e scorre giù nella campagna romana.
 
IL DIALETTO DI TIVOLI:
 
  1. I vocabolari e le grammatiche
Tra gli studi sul dialetto di Tivoli citiamo: Evaristo Petrocchi, Bozzetti dialettali, Società Tiburtina di Storia e d’Arte, Tivoli, 1956. Il libro, a cura di Renzo Mosti, contiene testi dialettali pubblicati tra il 1892 e il 1938 da Evaristo Petrocchi, un Glossario di Giuseppe Petrocchi ed un Vocabolarietto tiburtino dello stesso Mosti; Igino Giordani, Il dialetto tiburtino, ripubblicato nel 1961 in “Atti e Memorie” della Società Tiburtina di Storia e d’Arte da un lavoro apparso a puntate sul “Bollettino di Studi Storici e Archeologici di Tivoli dal 1920 fino al 1924. È diviso in tre parti: 1) Fonologia, 2) Morfologia, 3) Appendice (con canzoni e descrizioni di giochi d’infanzia); Dante Corneli, Il vocabolario del dialetto tiburtino, s. l., s. n. (pubblicato forse nel 1973), con moltissimi vocaboli e soprannomi; Antonio Mancini, La lingua tiburtina, Centro culturale “Rocca Pia”, Tivoli, 1984. È suddiviso in sei parti: 1) Vocabolario (con più di tremila vocaboli), 2) Grammatica (morfologia e fonologia), 3) Nomi, 4) Soprannomi (un elenco molto lungo), 5) Proverbi (con traduzione e spiegazione), 6) Poesie e prose tiburtine; Franco Sciarretta, Il dialetto di Tivoli, Tipografia Mancini, Tivoli, 1999. Il libro è diviso in tre parti: 1) spiegazione dei termini dialettali e loro base etimologica, analisi della metafonesi, 2) evidenziazione delle voci volgari già in uso nella tarda antichità fino ai giorni nostri, 3) poesie dialettali sacre e profane.
A queste occorre aggiungere quella più recente, la Grammatica del dialetto tiburtino di Veronica Petrucci. Un vocabolarietto è anche in appendice alla raccolta di poesie di Marcello De Santis Passanu l’anni… e se diventa rossi.
Gli scritti in dialetto tiburtino di Evaristo Petrocchi (1870-1944) non erano sfuggiti ad Ernesto Monaci, grande maestro di filologia e di linguistica, che nel 1892 li aveva posti all’attenzione degli studenti durante le lezioni universitarie della
Sapienza di Roma.
Di Evaristo Petrocchi si interessò in seguito anche il prof. Francesco Ugolini, titolare della cattedra di filologia di Torino ed anche Igino Giordani, nonché il fondatore della benemerita rivista “Atti e Memorie” della Società Tiburtina di Storia ed Arte, prof. Vincenzo Pacifici. Parimenti prestò attenzione all’opera di Petrocchi anche il prof. Silla Rosa De Angelis, studiandone l’aspetto tecnico e filologico nell’ambito della storia della letteratura e dell’arte tiburtina, mettendo in risalto la dignità e il valore letterario del dialetto del Petrocchi.
Infatti egli è stato uno scrittore dialettale spontaneo ed immediato e nella sua opera traspare giovialità, unitamente ad un sarcasmo, una invettiva ed una schiettezza esemplari. I suoi Bozzetti dialettali (riedizione 1956 con prefazione e glossario di Giuseppe Petrocchi e vocabolario tiburtino di Renzo Mosti) rappresentano il massimo della dialettalità tiburtina.
Nell’ultimo trentennio rimarchevoli sono stati gli studi e la ricerca seria, costante ed accorta condotti da Franco Sciarretta sul dialetto tiburtino.
 
2. I proverbi e i modi di dire
Il libro di Antonio Mancini, La lingua tiburtina, nella quinta parte contiene numerosi proverbi di Tivoli con traduzione e spiegazione. Ed ecco alcune espressioni tipiche: gnàzzica-culu (sculettamento), fà’ lu còci-culu (fare il pignolo), anna’ a fa’ lu spiluccu (raccogliere le olive rimaste a terra dopo la raccolta vera e propria).
 
3. I toponimi e i soprannomi
In Dante Corneli, Il vocabolario del dialetto tiburtino, sono presenti moltissimi
soprannomi. Una nutrita raccolta di soprannomi è ne La lingua tiburtina di
Antonio Mancini. In Le storielle di “Ulisse de Zi Chiccu”. 2100 soprannomi, quadretti
e bozzetti tiburtini di Dante Corneli (1980), il cospicuo elenco è preceduto
da un trattatello sui soprannomi tiburtini (loro origini e curiosità varie).
Nei Bozzetti dialettali di Evaristo Petrocchi i soprannomi di molti tiburtini sono
rievocati in un racconto intitolato “Ar tràmme”. Un brano:
Collu tràmme delle cinque e pe lo friscu la gente va a bbeve l’acqua (…) Ci trovi mezzu Tivuli: Gelardo de Magghiella, Telemaco lu barberu, Cristicristi, Strunzittu, Pataccò, Sirvani lu cazzularu, Ninu de Meo, lu figghiu de Capurosci che sta alla ferovia, sor Nino Sandini, sor Cencio Mangini, Gniaccalò, Peppinò, Amanzio Cararini, Giuvanni de Recchieritte, Chiriè, Zabbagghia, Sirvio dellu Tollo, Coccodè, Mazzocchietto, lu Befanu, Cesare della Concia, Patalocco, Giggi dell’Acqua Marcia colla mogghie, Rico de Pizzabbiocca, Pizzafritta, Cordalenda, Scroccazzippi, Lisandro de Rittustea e Ndonicchiu e Larrizzonda, Ornesto de Bracioletta, Tomasso de Culuniru, Manfrella l’oste, Sorecittu e Cuticò, Pippo de Miriggiddio, Sanasca, Niceto de Bomma, Pippo de Pistò, Don Grigòrio e tanti atri che non me n’arecordo. E le femmine?… più sta e più ci ne vengu. Ci vè: Gnesa dellu pelatu, Rosa de Patacchinu, Locia de Scroccazzippi, Zozza de Catalli, Maria la Ghiatta, Zenaide de Losò, Nanna de Cellalonga, Peppina dellu sorece, Angela de Sordepò co’ na ponda de figghie, una più paccuta dell’atra; la figghia de Tuttimorti, la mogghie de Battiranturcu, Ninetta la Cazzettara, Giustina la Bustara, Massimina de Minotte che appiccia le lampane a campusantu, Rachella che fa le viacruci, Gnesina che cuce li cazzuni de omo, Chetucciona, la Sdiffa che non po’ vedè l’acquavita, Tuta de Panzamatta, quella de Bigonzo, Ntonia de Maracciu, Mariuccia de Facioletta, Memma de Tischitoschi, Teresia de Bellicapelli, la mogghie de lu Mandrillu, Generosa de Mittimusse, Pataccona, Maridomenica de Ciafrocco, quelle de Doroddea, la mogghie de Barasca, Margarita de Cippurittu, Pocetta, La Coccona, Luticarda de Mbrena Cocozze e la sorella de Mbrenamosche, la sorella de lu Fantoccio, le figghie de Pelaniccia, Nanna de Cacchini, Nanna la Tociana, Locia dellu Struzzu, Rosa Cazzona… e se l’aèsse da mentuvà tutte non la fernisceria più..
 
4. Canti – filastrocche-indovinelli – giochi – gastronomia – feste&sagre-altro
Feste e sagre. – Inchinata: manifestazione di profondo significato religioso e di tradizione medievale (14 e 15 agosto). “Settembre Tiburtino” (manifestazioni varie che culminano con la sagra del “pizzutello”,
uva tipica locale.
 
Usanze e tradizioni. – In Grammatica del dialetto tiburtino di Veronica Petrucci sono presenti alcuni interessanti etnotesti sulle usanze collegate al Matrimonio e al Battesimo ed a Pasqua, Pasquetta e Carnevale. Ecco alcune credenze e consuetudini:
Le Streghe. Una credenza popolare voleva (per Tivoli e per molti paesi della Valle dell’Aniene) che il 24 dicembre entrassero nelle case le streghe per far del male ai bambini, approfittando che essi dormivano incustoditi mentre i grandi erano alla messa di Natale. Per evitare che le streghe si intrufolassero nelle case era usanza turare con la stoppa le toppe, incrociare dietro l’uscio le scope, chiudere le vattarole (piccole aperture quadrate nel bordo inferiore dei portoni per consentire ai gatti e alle galline di entrare ed uscire) ed a gridare, prima di mettere piede fuori dalla porta: zeppetì, zeppetè (formula dal significato sconosciuto). A Tivoli e nella Valle dell’Aniene i contadini proteggevano le stalle con immagini di santi e con cardozzi (cardi spinosi selvatici) al cui centro era collocato un bel corno rosso perché si diceva che la Notte del 24 le streghe si impossessavano di buoi e cavalli utilizzandoli per tutta la notte e sfiancandoli. C’era poi la credenza che chi nasceva il 24 dicembre diventava strega se femmina o lupo mannaro se maschio.
 
Fidanzamento e sposalizio. Quando le reazze erano “da marito” (tra i 18-20 anni), le vecchie mentre sedevano a scartoccia’ o a strega’ la melega cercavano di favorire gli incontri delle ragazze con i ragazzi da mojjera. Queste uscivano con le conghe (conche) di rame per andare ad attingere l’acqua alla fontana, dove erano attese dai giovinotti. Altro luogo d’incontro era la chiesa, dove lui attendeva lei all’uscita dalla messa. Il fidanzamento si faceva se li genituri voleanu. In questo caso avveniva lo scambio dei doni: lui donava a lei fedina e fazzoletto per la testa e lei ricambiava con una cravatta o un fazzoletto da collo. Gli innamorati potevano parlarsi a distanza: lei sulla porta di casa, lui sulla via. In occasione del matrimonio gli sposi invitavano i parenti e gli amici allu renvriscu (rinfresco) tramite i bijjetti (inviti). Ci si sposava di norma a ottobre-novembre quando i lavori agricoli subivano una pausa. Al rinfresco era d’obbligo fare quattro giri o passate di ciambelle, quattro di ciammellitti, poi si davano i confetti. Al venerdì precedente lo sposalizio si faceva il banchetto per i parenti. Finita la cerimonia gli sposi si recavano alla casa della suocera dove questa, baciando la sposa le dava il benvenuto e l’oro. Quindi gli sposi erano sommersi di riso e confetti e si usava fare la scampanata con barattoli (un’usanza, risalente al Trecento, osteggiata dalla Chiesa, perché la riteneva un retaggio pagano). Il pranzo nuziale avveniva a casa e solo con i parindi stritti. Consisteva di otto o nove portate: antipasto con prosciutto e salumi, stracciatella, bollito con verdure, carne nnummidu (con il sugo), cosci di pecora mbilottati (farciti), abbacchiu e ’nzalata, supplì, ricotta, fegato e frutti locali e vino rosso a profusione. Poi si passava ai confetti: tre per ogni convitato, distribuiti con un cucchiaio d’argento. Chiudeva il pranzo un tradizionale scherzo greve: su un piatto coperto venivano posti i testicoli e una tibia di un montone (simboleggianti il fallo) e la sposa, scoperchiandolo, doveva dire ridendo: è musciu… Dolci pasquali.
 
A Tivoli e nella Valle dell’Aniene a Pasqua le donne preparavano a casa per cuocerle nel forno a legna più vicino i dolci tipici: le pizze duci (dolci) o sbattute (pan di spagna), quelle lévete o cresciute, le uova sode (fatte cuocere insieme all’acqua con la verdura per farle colorare), la pupazza (a forma di bambola) e ju cavallucciu (a forma di cavalluccio) che venivano regalati alle bambine e ai bambini: ambedue i dolci avevano un uovo sodo nella pancia, tenuto fermo da due cordoncini di pasta incrociati. La pupazza aveva i seni e portava le braccia curve sui fianchi (le maniglie per prenderla); il cavalluccio aveva sul dorso una specie di maniglia per favorirne la presa. Chicchi di caffè erano messi al posto degli occhi e si ricorreva ai carbuni per realizzare la bocca e gli occhi. Questa usanza è durata fino ad una trentina di anni fa.
A Subiaco la pupazza veniva chiamata pigna, a Jenne mammoccetta, ad Arsoli palombella, a Cervara pignatella. Il cavalluccio a Subiaco veniva chiamato ju valle (aveva la forma di un gallo), a Jenne cavajo, a Cervara ju calluzzittu (galletto), ad Arsoli ju cavallucciu, a Pisoniano j fucile (fucile).
  
4.1 Canti
Alcuni stornelli di Tivoli tratti da Canti popolari Romani di Giggi Zanazzo, Torino, Società Tipografico-Editrice Nazionale, 1910.
 
1540 – Benedico la madre che l’ha fatta: / lìha fatta bianca e roscia e colorita, / pare che tra le rose ci sia nata: / Ci donu lu mio core e la mia vita. 1542 – E Sant’Oliva té donò la parma, / Sant’anna ti donò li fasciatori, / E Ssan Giuseppe té donò lu fiore / E io so’ quillo che tt’ho dato ir core. 1545 – Carnevale giuttu ghiuttu / S’ha magnatu lu preciuttu, /Lu preciuttu e lu salame / Ghiuttu ghiuttu, Carnevale! 1546 – Fiore dé riso, / Té vogghiu arefalà’ l’acqua dé rasu, / Dimammattina té ci lavi ’r viso. 1547 – Quanno nascissi tu nascì lu sole / la lune sé fermà’ dé camminana
/ Le stelle sé cagnaru dé colore. 1552 – Fior dé granata, / Nun mé’ ‘’mportunà’ ppiù pe’ le levèta (oliveti) / se mmé vô’ bbene l’ha da dìne a tata. 1554 – Fior dé granatu, / Vittorio Manuelle m’ha traditu: / Ha ppreso lo mi’ amore pe’ sordatu. 1557 – Si mmamma nun mé dà chi dico io, / Amore meu, nun mé marito mai: / Mé faccio monichèlla e spuso Dio. 1563 – Le stelle s’arremittu (scompaiono) a una a una, / Abbagghia ’n cane e pizzica la strina (la tramontana): / Dormi, bellezza mea, bòna fotuna!
 
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
Da Il dialetto tiburtino di Igino Giordani che contiene un’appendice con canzoni e descrizioni di giochi d’infanzia, un indovinello nel più puro dialetto:
’Nduvina ’nduvinarellu: S’arepperizzica suppe li munti / e s’arettummula pe le leveta; / scote sinende l’archi alli punti / e va fiarènnose gghjò pe le prata. / Quanno gnaulenno se fionna a lo scuru / zicchia, fratelli, come ’tincu niru / e sprefonnennose drent’a ’gni furu / va da serèra, senza respiru. / È lu diavulu quissu, scommetto, / sarvenno a Dio l’angel’elletto. / Drento fugghjetevine: ete vistu comm’ene… / e anduvineteci mo’ sacche d’ene.
Da De Santis (in Gocce di ricordi) alcune cantilene materne, la prima, pe’ spupazzallu, dedicata al fratellino: … ssedia ssediola Renato va a lla scola / se porta la ssediola / se porta ’l canestrello / pieno pieno de pizzutello…
Altra cantilena materna per strappare un sorriso al piccino: … piove e pioviccica / lu culu te ss’appiccica / s’appiccica alla cannela / e llu culu te sse pela…
E ancora: … seta setaccio, de sto pupo che me ne faccio, / io lo do alla befana / che se lo tiene ’na settimana, / io lo do all’omo nero / che se lo tiene un anno intero… e se era femminuccia: seta setaccio, de sta pupa che me ne faccio, / me ne faccio ’na bella cosa, / quanno è grossa la faccio sposa…
Ancora di M. De Santis, due tiritere; la seconda a doppio senso:
…giro girotondo cavallo imperatondo… / d’oro e d’argento che conta cinquecento… / cinque e cinquanta la gallina canta… / lasciala canta’ o che bella voce che cià, / la voce della spica la sora margherita… / la sora margherita.
Piso pisello colore così bello… / la sora molinara che sale sulla scala / la scala e lu scalo’ / e la penna der piccio’.
 
4.3 I giochi
Molti i giochi citati da M. De Santis in Gocce di ricordi, tra cui: fa’ le brocche co lu cannille (bolle di sapone sciolto in un barattolo di conserva, con un tronchetto di canna); l’altalena: la balincorda, fatta dai bambini. Il poeta ricorda:
a ll’arberu de nuci ci passemmio, pe ssopra a u’ ramu rossu,’na corda paccuta; a lli do’ cappji ci leghemmio ’na tavuletta, e èsso fatta la balincorda… quadunu spignea e quadun’aru volea su e gghio’… no llitichemmio guasi mai, facemmio’mpo’per unu;’mmece certe vote ci facemmio la liana de tarza, co lla corda appiccata a ll’arberu, comme vedemmio ar cinema…)
Ecco come si costruiva una cometa (aquilone). Nell’acqua calda si scioglieva piano piano la farina e, spiega M. De Santis, “si otteneva una colla perfetta che serviva per incollare sulla carta colorata, le liste di canne a croce, impalcatura artigianale che serviva per tenere in aria la cometa”, poi, ottenuto dalla mamma:
lu gommitulu de filu resistente, ’mpo’ de farina, u’ rotulu de spacu, de quillu leggeru leggeru… pe’ tirà la cometa, maaaaaa’ …te’, pigghiate quissu… no, maaaaa’! quissu nn’è bbonu… be’ quistu non te llu do, me serve a me!… maaaa’ essù, me seeeerve… alla fine la spuntavamo sempre pur di levarcisi da torno, pur de non senti’ più quelle lagne, le mamme cedevano tra strilli e ammazzature…
 
4.4 La gastronomia
 
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
Nella sesta parte de La lingua tiburtina, di A. Mancini, sono contenute prose tiburtine. Testi sono pure in Poesie e prose in dialetto tiburtino di Marcello Coltellacci-Antonio Osimani (1987).
Segnaliamo anche Piripiriboccia, Racconti in dialetto tiburtino (1987), Lu paese meu, a c. di Giuseppe Porcelli con prose dialettali dal 1900 al 1980, Vogghja di Tivuli, ricordi, fatti e aneddoti in dialetto tiburtino di Domenico Viglietta (2000), Gocce di ricordi (pezzi di vita) di M. De Santis:
Ma su tutti i prosatori tiburtini emerge la figura e l’abilità narrativa di Evaristo Petrocchi che si esprime nei suoi esemplari bozzetti dialettali (di cui il primo “Drento alla Bbettula” fu dato alle stampe nel 1892). Qui riportiamo quello intitolato “A la porta de Santa Croce”.
Tomasso dittu lu bufalo passa collu somaru Marco co dò biunzi: un somaru che non ci appò nemminu quillu de Barabba e che ariccia lu nasu e se strofina alla coccia e allu muccu de lu patrò, comme se volesse facci le gghierde.
La guardia del dazio – Dazzio!…Aò…che si surdu? Dazzio!
Tomasso (continuenno) – Non ci sta gnente!
La guardia – E… fèrmate!…Achi dicio?
Tomasso – E che ogghio da fermamme? Non gi stà gnente: già te lo so dittu.
La guardia – E ’sti biunzi?!…
Tomasso – E lète, lète! Ce stau li panni de le creature de Sordepò, che porto a la limara a la lavannara.
La guardia – Non gi credo!… Tu me vò mbrogghià (pigghia lu spadinu e arebbota li panni).
Tomasso – Non smucignà!…
La guardia – E ’nvece vogghio propiu vedè. Tu che vò?
Tomasso – Non smucignà e dòva!…
La guardia (co le mani ’nzozzate) – Ah… che te pozzanu fa comme quillu delle porte bbelle!…
Alcuni ragazzi che assistono alla scena: Eu, Eu!
Tomasso – Si vulutu smucignà? Smucigna, smucignà mò.
 
6. I testi di poesia
Tito Silvani (1870-1954) insieme con Evaristo Petrocchi (1870-1944) rappresenta il meglio della dialettalità tiburtina in tutti i suoi aspetti storici e filologici.
Petrocchi è il poeta del “bozzetto” del teatro, delle storie quotidiane della Tivoli del centro storico. Tito Silvani è sicuramente il miglior cantore tiburtino sino ad oggi. Meno dotto di Evaristo (che fu docente di materie letterarie nel Ginnasio superiore del seminario di Tivoli) Tito Silvani (che non aveva avuto i mezzi per studiare) scrive poesie in rima e “sonetti”.
Anche per Silvani il tema del suo poetare “è la vita quotidiana, vizi e difetti dell’uomo in genere soprattutto si accanisce contro i malfattori, i politici corrotti, i furbi, i briganti, i religiosi poco convinti” come afferma Franco Sciarretta nella prefazione dell’ultima raccolta di circa 500 sonetti dal titolo De coccia mea (1995). Silvani fu orgoglioso di essere un autodidatta e di aver scritto le sue poesie senza mai imitare nessuno, come appare evidente nei suoi stessi versi: De coccia mea, so scritti ’sti sonetti / senza la scòla de maestri adatti / senza poeta che me l’à corétti…
Tivoli gli ha dedicato una strada. Ed ecco la poesia, tratta dalla raccolta prima citata, “Lu consigghiu de nonna”:
Nonna me disse ’n giorno: / se t’ha da marità, / tre cose io t’avverto / non te n’ha da scordà: // fatte la permanente; / vestìti ’n quantità; / la bocca sorridente… / che li fa spasimà. // Tutti te vengu appressu / ché si’ ’na… rarità; / se te ghiedu… quaccosa, / tu cià da di’: dimà! // Dimà ’nn ariva mmai; / feniscerà così / che ghiete allu Curatu / e vi fa di’ de sì. // Quillu vi lega / e mai vi sciogghie: / “l’omo è maritu / e tu si’ la mogghie!”.
 
Molti altri sono stati i poeti dialettali tiburtini di rilievo quali Igino D’Anversa (1982 – opera pubblicata nel 1945), Eugenio Dolciotti (1870), Liduina Mariotti (1893).
Giuseppe Petrocchi cita oltre a questi i nomi dei poeti Coccanari, Tedeschi, Angelo Quinci, Calvari, Mosti Cletemisto, A. Pacifici, Giuseppe Orzati, Candido Sponticchia, Ruggero Barra.
Ne Il dialetto di Tivoli di Franco Sciarretta sono riportate poesie di E. Dolciotti: “È mmortu” (1894); di Ruggero Barra: “Formico’ (1928); di Giuseppe Orzati: “Pe’ lle leveta (1925); di Candido Sponticchia: “Sòla sòla comme ’n’ombra” (1930); di Angelo Quinci: “Ricordi della cittadella” (1924). Quinci, squisito letterato, traspose la commedia “Una partita a scacchi” di Giacosa in dialetto tiburtino: “Una partita a briscula”, che fu rappresentata al circolo Tibur.
Più recenti le voci dialettali tiburtine di Dante Corneli con i suoi racconti, storielle e bozzetti in dialetto e di Giuseppe Porcelli, autore di sonetti.
Poesie dialettali sacre e profane sono presenti nella terza parte del volume di Franco Sciarretta, Il dialetto di Tivoli. Alcune sono anche in La lingua tiburtina di Antonio Mancini. In Lu paese meu, a cura di Giuseppe Porcelli sono antologizzati testi poetici dialettali compresi nel periodo dal 1900 al 1980.
Si segnala anche Poesia e tradizione del popolo tiburtino (1968) di Clara Regnoni Macera Pinsky.
 
Marcello De Santis, poeta in italiano e in dialetto tiburtino, ha pubblicato in poesia: Odo nel vasto silenzio (1976), E passerà solo il vento (1978), Un pierrot senza speranza (1981), Alla luna che è mia (1989), Sarajevo, otto poesie (1997), Quann’èmmio reazzitti (1997), Gabbiani (1999), Me so’ inzognato Roma (2001), Passanu l’anni… e se diventa rossi (2001).
Quelle in dialetto tiburtino sono “poesie dettate dalla memoria”, come dichiara l’autore nella prefazione di Passanu l’anni… e se diventa rossi (2001): “lampi di piccoli, indelebili episodi di vita vissuta”, già osservati da Cairoli nella presentazione di Quann’èmmio reazzitti (1997), che illuminano luoghi, personaggi, episodi di vita quotidiana a Tivoli nel dopoguerra ed in anni più vicini a noi, restituendoceli con devota fedeltà perché lucido è il loro ricordo. Basta leggere – e lo si fa con assoluta godibilità – Gocce di ricordi (pezzi di vita), del 2007, un volumetto che alterna ricordi in prosa e poesia, in lingua e in dialetto, piccoli componimenti poetici, filastrocche, cantilene, storielle: un piccolo, prezioso patrimonio della Tivoli di un tempo. Da Passanu l’anni… e se diventa rossi, ecco in “Era febbraru” uno squarcio di vita domestica:
Era febbraru… ’nfriddu da morìcci… / pe ttera, propiu ’mmezzu a lla cocina, / ’na cofana de bracia pe’ scallàcci / ’mpo’ le cianchi e lle mani, doppu cena. // Ci assettemmio ssosì a lla ssedioletta / io e fratimu, soffienno a lli geluni… / da ll’ara parte mamma zitta zitta / co ll’acu arecconcea li petalini. // Po’ arevenea papà da lavoràne, / co’ ’ncartatu quaccósa da magnàne… / mo ’na perzica… mo ’na mozzarella… / mo ’mpezz’ ’e caciu e ’mpo’ de mortatella… // e sse mettea, issu pure a ’rescallasse / vecinu a nui… mamma ci dimannea / e issu areccontea… / cose da rossi… nui non capiscemmio… // pianu pianu la bracia se smorzea // … e nui ci appennichemmio.
Poi si diventa róssi (grandi) e sboccia (“Concetta”) l’incanto amoroso:
Ammazza sa’cche lluna, ci sse vede / pure co ll’occhij gghiusi, pare giorno / e tuttu ’ntorno / senti lo cicalàne de lli rilli // e lloco su le stelle a una a una / ci vardanu e ci portanu fortuna / comme so’ belle, e tu come si’ bella… / tu pure si’ ’na stella… la più bella / tutta d’argentu sopra a ll’erba fina //’nci pozzo crede, tu me sta’ vecina / e io te bacio sopr’a lli capilli.
Nessun problema se non si poteva andare al mare, si andava a Bagni di Tivoli all’acqua sulfurea (sorfa). Ed ecco come ricostruisce alcuni quadretti:
Comm’intri drento te n’accorgi a vulu / che ll’acqua sorfa pizzica a llu culu / eppo’ a lli pili sott’a llu costume… / quann’esci… lu “zipicchiu”… fa lo fume. (…) / – Ghiettate, pertico’, facci “’mpennellu”! / – E cche sso’ mattu? – ci arespose quillu. / Locco locco arescese la scaletta / s’assettà, e s’appiccià ’na sicaretta… (…) // Gghió a lla spiaggia ci stea ’na pipinara / de reazzi e reazze / tra ll’arberi ’mprecugghiu de celluzzi / a ffàne ’na cagnara / che tte ’ntontoniscea tutta la coccia / lu sole t’affochea / e tt’abbrustuliscea / tutta la ciccia.
Ed ecco l’esperienza del primo tuffo dal trampolino di tre metri sotto lo sguardo del padre, abile tuffatore (a nnotàne me llo ’mparà papà), che dispensa consigli:
…ma fallu rittu… / a capusotto nòne… si’ micchittu…” Invece: Comm’era ardu!… me girea la coccia / pia’ a respira’ su e gghió… e appena fattu / arza’ le braccia sopra a lla capoccia / e me tuffa’ decisu, …a capusotto.
Ironia ed autoironia sono presenti in molte delle poesie, sia che si tratti di persone care come la nipote Lorella, laureata con una tesi su un poveta di Spagnia, e che gli ha chiesto un aiuto: – Sa’ che lagna… (ma come avrei potuto arifiutare), commenta De Santis, il dolce invito di quella che se tte varda, te spennàzzula (quella che ti guarda facendo sbattere velocemente le ciglia); sia che si tratti di se stesso (“So’ fatti sessant’anni”), quando dopo una cena abbondante di compleanno e do’ fette de torta arebbelat’ ’e cannelette (piena zeppa di candeline) e appressu la pasticca ’e lla pressio’, commenta: So’ fatti sessant’anni… mo so’ pruntu / a ffa’ lu viaggiu che’gnunu à da fa’… / certu, me piaceria d’ariva’ a centu… / mbè, ’nci penzemo, va… tira a campa’…
Delizioso infine il bozzetto “Locia e Gnesina”, venditrice ed acquirente che contrattano due grappoli di uva pizzutello, specialità tiburtina, e il ritratto sognante di “Lu vecchiu”, entrambe in antologia.
 

Testi poetici nel dialetto di Tivoli sono raccolti in Poesie e prose in dialetto tiburtino di Marcello Coltellacci-Antonio Osimani (1987). Numerosi sono gli autori tiburtini, tra questi citiamo: Augusto Altissimi, Mimma Azzari, Gabriella Carnevali, Fiorenzo Cialone, Gian Franco D’Andrea, Antonio De Filippis, Marcello De Santis, Giuseppina Maugliani, Giuseppe Porcelli, Domenico Viglietta. Loro testi in dialetto, in prosa (Altissimi e Azzari, di quest’ultima anche un testo poetico) e in poesia (tutti gli altri) compaiono in Antologia di Autori Tiburtini, Tivoli, Associazione Tivoli for You, 2007. L’insieme di questi autori testimonia l’esistenza di un esteso sostrato di amanti della poesia, di valore ovviamente diverso.

 

Una poesia di Andrea Cara è pabblicata a pag. 22 del libro dell’Associazione Pro Loco Montecelio, “D’Abbrile canno l’aria se rescalla…”. Primo Premio di poesia dialettale “Don Celestino Piccolini”, a cura del Comitato Festeggiamenti S. Michele, Montecelio, 1978 (poesie di Mario Carrozza, Giulio Di Mario, Antonio Margozzi e Teresa Sperandio Pioli ed altri, Montecelio, Tipografia Veligraf, 1997.
 

In Mezzaluna di poesia dialettale. Premio di poesia dialettale Sabina, Mentana, Centro sportivo Mezzaluna, 1988 e da Mezzaluna della poesia e della canzone Sabina, Mentana, Centro sportivo Mezzaluna, 1989, sono riportati testi dei poeti tiburtini: Mimma Azzari; Mariano Acciani (“Lu paese vecchiu” – Viculi stritti, / sergiati, / case micche, / una vicinu all’ara, / tutte ammucchiate. / Poc’anni arretu / lu paese / era quisto: / reazziti che strilleanu, / commari che / celletteanu, / ommini che fumeanu la pippa. / S’entra da ’na casa / all’ara, / senza soggezziò. / Mo’ ’nvece… / ’nze sente gnente! / Pare ’na cappa / de’ piummu. / Doa so’ le cose / che ste quattro / catapecchie / fannu sintì / a chi ve passa ’mezzu: / silenzio e nostargia… [celletteanu: spettegolavano]); Alessia Puzzilli (due le poesie riportate: “Drendo a’n piattuccio votu” e “Celu” – (…) Nui semo figghi sei, ricami de ’n solu bianco lenzolu. / Però… / pero’ io sto ecco ’n mezzu alla gende / sto sola drendo ’na piazza vota, / fatta de celu e de speranza tolta; / tra me e vui ’na barera che n’ se po’ passa’, / fatta d’ipocrisia vennuta, de timori mai aretirati, / de gesti e sendimenti mai ferniti. / Non sento ne’ vuci e nemmancu l’odori / ma solu li fiuri de chi me varda me ride ’n faccia / e s’aremette a lu postu seo. / A postu ’n mezzu all’are statue d’avorio, tra / lu munnu che me gira ’ndorno, me saluti ’gni giorno / e passa vécinu comme fosse ’n trono rossu. / Sola ecco tra la gente che me gira, / me tocca e ’n z’arecorda); Giovanna Consalvi Colanera (due le poesie riportate: “La montagna” e “Scocca e arentòcca” – Scocca e arentòcca l’ore la campana / de llu relloggiu de lla ghiesa vecchia, / lu sòle a llu tranuntu s’arespecchia / all’acqua de llu lagu che sse spiana. / Quantu me piace st’attimu de requie, / quantu me gusta de’ sta’ zittu e ’pace! / Spalanco la finestra all’arecordi, / vedo li ggiorni mêi che ssò passati, / faccio li cunti, conto… / ma quanti se so’ mmêzzi scancellati! / le côse belle me sse sò stampate / a lla capoccia fisse veramente, / e quelle brutte ’vece finalmente / gira e areggira me lle so’ scordate. / Perciò vardo stù sòle che sse mòre, / perciò vardo stù ciêlu che sse scura, / pensénno che dimà verrà secura / n’ara giornata bella, bella, bella…); Giuliana Schiavetti Mosti (due le poesie riportate “Coluri de marzu” e “Mammota”: Casaricciotta, senza struzziò. / T’ha fattu ròssu co’ devozziò / Ha reccota la prima parola… / Lu primu penzeru alla scòla. // T’ha guaritu li cendu mallanni / Che si patitu pe’ accoppià l’anni / E quannu la frève t’ha datu a lu capu, / E’ essa c’ha ’nfussu lu pannu bagnatu. // Ha soffertu miserie e doluri / Pe allevatte senza penseri, / S’è data da fane co’ mille feccenne / E tu… ’nde si accortu de gnende! // Se t’è servitu n’abitu bellu / S’è cecata pe’ ainasse a cucillu, / Mo che ssì ròssu e la lasci da sòla… / Lo bbè che te vò la conzola! // So passati tand’anni, è stracca, ’nvecchiata, / Lo da fane è fenitu e stà loco assettata, / Ma quannu la vardi e tu dici – E’ fenita… / Te dà angora tutti, ’nzinente la vita! [Casaricciotta: persona semplice; T’ha fattu ròssu: ti ha cresciuto; pe’ accoppià l’anni: per diventare grande])

 

Antologia
MARCELLO DE SANTIS
 
Lu vecchiu
 
Lu cappellu ’ngargatu sopr’a ll’occhij
e la pippa smorzata tra lle mani
se stàne a ’recorda’ quann’era maggiu
sbracatu a lli scalini de Sammiaggiu…
Lu sòle da pe ll’aria l’arescalla
se l’alliscia e ci fa la ninnananna.
Ecco che s’avvecina ’na reazza
bianca come le nève, da lla piazza…
(è la reazza sea che ’nci sta ppiù…
è tantu tempu che sta loco su…)
Issu non ci llo sàne, ma è arivata
l’ora che da tant’anni stea a ’spetta’
p’aretrovalla… e mo l’à ’retrovata…
co ll’occhij gghiusi se la sta a sogna’…
Ntreminti che lu sòle se nne vàne
lu poru vecchiu se sta a ’ppennica’.
E la reazza, l’occhij avvellutati,
lu pìa pe mmani e se llu porta via…
volanu lemme lemme tutt’e doa
versu lu paratisu… abbraccicati…
Locia e Gnesina
 
– Loci’ quantu lo fa’ ’sso pezzutellu?
– Domila lire… è propiu arecalatu…
è de giornata… appena lo so’ cotu..
avvarda sa’ ccomm’ène… è propiu bellu…
Gnesi’, quantu ne faccio, ’na chilata?
– Uh, nòne, è troppu… giustu u’ rappagghijttu…
e attastenno li vachi co lle déta
– me pare verde… – fa – capalu fattu…
– Ma quale verde e verde… è zuccarellu…
che ciàne a ’ssa capoccia?… aropri l’occhij…
’ndo’ lo trovi ssosì lo pezzutellu…
– Va bbe’… saràne come dici tu…
mo me lli so’ comprati,’ssi do’ cacchij…
però si’ cara… e no mme vidi più.
 
 
TITO SILVANI
 
La ninna nanna
 
Mamma, me n’arecordo, craturella
me ss’abbraccea pe’ damme lo latte,
io m’attacchea come le mignatte,
non era sazziu mmai de sugà
                               Pó, se non m’addormea, co’ ’na ssedia
                               facea la canafiena e tra lo sbatte
                               e lo cantà certe canzone adatte,
                               pe’ fforza me ne avea da calà.
E m’arecordo pure ch’ero stranu,
comme sentea lu lettu me svigghiea,
pe’ quantu me pusesse pianu pianu.
                               E doppu fatta tutta ’sta fatica
                               me déa ’n baciu ’n fronte e me dicea:
                               figghittu bellu, Dio te benedica!
(1927)
 
 
GIUSEPPE ORZATI
 
Pe lle leveta
 
Le sacca piene tutte ’nfosse d’ogghju
le mittu alle caretta, pe lla strata…
Un vardianu co’ n lapisse e co’ n fogghju
s’apponta quanta liva à caricata.
Un reazzittu appiccia sopra a’ n scogghju
lu focu, perché à fatta la gelata;
lu padrò c’à paura de quae mbrogghju
va cerchenno la liva annasconnata.
Lu battitore scoccia li ramitti
che vau volenno colla tramondana;
quae femmina vo dì li stornellitti,
quaduna ci aresponne alla romana.
E do’ mazzamorelli zitti zitti
avvardanu le cianchi a’ na quadrana.
(1925)
 
Cenni biobibliografici
Dante Corneli, (Tivoli 1900-1990) è autore de Il vocabolario del dialetto tiburtino (1973) e de Le storielle di “Ulisse de zi Chiccu” (1980).
Marcello De Santis, nato a Tivoli nel 1939, ha pubblicato in poesia: Odo nel vasto silenzio (1976), E passerà solo il vento (1978), Un pierrot senza speranza (1981), Alla luna ch’è mia (1989), Sarajevo, otto poesie (1997), Quann’èmmio reazzitti (1997), Gabbiani (1999), Me so’ inzognato Roma (2001), Passanu l’anni… e se diventa rossi (2001), Di me …e d’altre cose (2007); in prosa: Lettere dalla Ciociaria (1989), Cara idea… (1998), Gocce di ricordi (pezzi di vita), 2007.
È in Antologia di Autori Tiburtini, Tivoli, 2007.
Evaristo Petrocchi, (1870-1944) è autore di Bozzetti dialettali (1956), con prefazione e glossario di Giuseppe Petrocchi e vocabolarietto di Renzo Mosti.
Giuseppe Porcelli, poeta, è presente in Antologia di Autori Tiburtini, Tivoli, 2007.
Franco Sciarretta, è autore de Il dialetto di Tivoli. Nascita e sviluppo dall’età classica ad oggi (1999). Attualmente è il più profondo conoscitore del dialetto di Tivoli.
Tito Silvani, (1870-1954) autore di De coccia mea. Poesie in dialetto tiburtino (1995), è considerato il miglior cantore tiburtino.
 
Bibliografia
Ancini, Antonio, : La Lingua tiburtina : Vocabolario, grammatica, nomi, soprannomi, proverbi, poesie e prose, Tivoli, Chicca, 1984 [a cura del Centro Culturale Rocca Pia Tivoli]
Battisti, Carlo, Testi dialettali italiani in trascrizione fonetica, Vol. 1, L’Italia Settentrionale, 1914; Vol. 2 Italia centrale e meridionale, Halle, Niemeyer, 1921
Corneli, Dante C. Il vocabolario del dialetto tiburtino, s. l., (pubblicato forse nel 1973).
Corneli, Dante C., Le storielle di “Ulisse de Zi Chiccu”. 2100 soprannomi, quadretti e bozzetti tiburtini, Tivoli, Tipografia Monotipia Ferrante, 1980.
De Santis, Marcello, Odo nel vasto silenzio, Tivoli, 1976.
De Santis, Marcello, E passerà solo il vento, Catanzaro, 1978.
De Santis, Marcello, Un pierrot senza speranza, Torino, 1981.
De Santis, Marcello, Alla luna che è mia, Frosinone, 1989.
De Santis, Marcello, Sarajevo, otto poesie,Tivoli, 1997.
De Santis, Marcello, Quann’èmmio reazzitti, poesie in tiburtino, Tivoli, 1997.
De Santis, Marcello, Cara Ida…, Tivoli, 1998.
De Santis, Marcello, Gabbiani, Leonforte, Enna, 1999.
De Santis, Marcello, Me so’ inzognato Roma, poesia romanesca, Tivoli, 2001.
De Santis, Marcello, Passanu l’anni… e se diventa rossi, poesie in tiburtino, Tivoli, 2001.
De Santis, Marcello, Di me …e d’altre cose, Tivoli, 2007.
De Santis, Marcello, Gocce di ricordi (pezzi di vita), Tivoli, 2007.
Luciani Vincenzo, Dialetto e poesia nella Valle dell’Aniene, Roma, Ed. Cofine, 2008.
Petrocchi, Evaristo, Bozzetti dialettali, con prefazione e glossario di Giuseppe Petrocchi e con vocabolarietto di Renzo Mosti, a cura di Renzo Mosti, Tivoli, Società Tiburtina di Storia e d’Arte, 1956.
Porcelli, Giuseppe (a c.), Lu paese meu: raccolta antologica di prose e poesie in dialetto tiburtino 1900-1980, Tivoli, Tipografia S. Paolo, 1982.
Porcelli, Giuseppe, Dialetto tiburtino, prosa e poesia, Tivoli, 1994.
Sciarretta, Franco, Il dialetto di Tivoli. Nascita e sviluppo dall’età classica ad oggi, Tivoli, Tipografia Mancini, 1999.
Silvani, Tito, De coccia mea, sonetti, impressioni personali, stornellate, spunti frizzanti in dialetto tiburtino, Villa Adriana, Tipografia, 1995.
 
Webgrafia