Da questo mare di Gian Piero StefanoniLa Postfazione di Franca Alaimo Raramente accade di constatare una così grande coerenza fra le dichiarazioni poetiche di un autore e la sua scrittura: “Vorrei - mi scrive Gian Piero Stefanoni - che si pensasse alla mia poesia come a una lunga, costante preghiera (almeno a un suo tentativo) con tutto ciò che implica nel dialogo quotidiano con il divino, con la sua infinita presenza di misericordia e sostegno del peso”. E, di fatto, i testi di Gian Piero Stefanoni aderiscono a questo programma poetico con una straordinaria compattezza che si rivela perfino nei dettagli: gli exergo, le dediche, i luoghi, le note, le date, i numeri. La devozione della parola ai temi sacri, che si esplica nella lode e nella celebrazione della bontà divina, nella sua presenza inesauribile che, per citare ancora le parole dell’autore, “si confonde e ritorna nelle dilatazioni dei nostri incontri e rapporti quotidiani con gli altri”, se da una parte riporta la poesia ad un suo compito strettamente etico e quasi “sacerdotale”, dall’altra sottolinea il divario fra la sua “impotenza” (nonostante il “dovere” di dire, nonostante i suoi tentativi di fondare una religione delle cose umane e delle relazioni fra gli uomini), e la forza fondante e fecondante della Parola divina, sola motrice della Vita e della Storia dell’Uomo. Una siffatta distanza diventa colmabile soltanto attraverso l’esercizio dell’Amore, ed è per questo motivo che l’arte perde se stessa, se non è mossa da tale sentimento.
È significativo in questo senso che Stefanoni dedichi le otto poesie della prima delle tre sezioni del suo lavoro poetico alle “Crocifissioni” di Giacomo Manzù. Di fronte ad esse, infatti, egli non si pone come un semplice osservatore, ma ritenta lo stesso percorso emozionale del maestro, condividendone l’idea che l’opera d’arte debba scaturire “da un moto d’amore” che, nel caso delle Crocifissioni, è diretto al Cristo e allo stesso tempo all’uomo, simboleggiando il Crocifisso la stessa sofferenza umana. Identico è anche il loro modo di stare di fronte alla tragedia della Storia, e, se per Manzù, nel volto del Cristo si cela quello del partigiano o quello delle vittime delle guerre mondiali, Stefanoni può intravvedervi quello dei tanti extracomunitari (ad uno di loro dedica l’ultima sezione del libro) morti nel tentativo di approdare in una nuova terra, per sottrarsi a quella povertà causata anche da un nuovo e più subdolo conflitto, spesso invisibile e apparentemente non violento, giocato dallo strapotere dell’economia sulle sorti del mondo contemporaneo. Nel testo “cinque” Stefanoni si sofferma a lungo sulla figura dell’obeso che sta ai piedi del Cristo ripetendone il significato simbolico che il celebre scultore volle darle: quello del “sazio” potere che venera i falsi idoli, che allontana gli uomini dalla pietas, dalla fraternità, dalla fede autentica. Il tema dell’allontanamento dell’umanità dalla fede è uno dei più presenti nella poesia di Stefanoni, in quanto ad esso è attribuita la presenza sempre più dilagante del male e soprattutto quella “accettazione/ oscura che poi il cuore confonde, divide, possiede”, in altre parole, il sentimento che papa Francesco ha definito recentemente il peccato contemporaneo più allarmante: “l’indifferenza globale”. Vorrei sottolineare come Stefanoni attui sempre questo processo di identificazione con i modelli, così come con i destinatari dei suoi testi: che siano altri artisti o personalità di fede o uomini e donne comuni, vittime di violenza. Così, nell’organizzare i ventotto testi della seconda sezione, che corrispondono, in un percorso di andata e ritorno, alle varie fermate della linea tranviaria 8 di Roma, l’autore passa dalla narrazione della via crucis di Cristo nella prima sezione a quella della via crucis dell’umanità (non è casuale, allora, che il numero ventotto sia esattamente il doppio delle stazioni sacre). Stefanoni, osservando e riflettendo anche sulla storia che i luoghi, raggiunti dal tram, trasudano, traccia una sorta di mappa parallela del dolore che dispiega sotto i suoi occhi il calvario dell’umanità: Campo del sangue, Largo Dunant, Piazza delle cinque scole, Quattro Cape rievocano la tragedia della shoah, altri luoghi affidano alla memoria i martiri del passato, altri denunciano le condizioni di vita di molti extracomunitari, e un altro (Monteverde nuovo) la morte sconcia e violenta di Pasolini. Anticipo questa affermazione perché servirà a capire meglio il sottotitolo di questa seconda sezione che, apparentemente, non ha nulla a che fare con il titolo “8, o della città”, che è “pregando con l’angelo”. L’autore, infatti, mentre viaggia col tram, osserva i luoghi e le persone che sfilano davanti ai suoi occhi: il vetro del finestrino sembra costituire una sorta di diaframma che lo pone nella condizione di cogliere le immagini della realtà con una disposizione d’anima che sconfina nello stupore, quasi che egli le veda per la prima volta: in questo modo egli può intuire in esse qualcosa che le sovrasta e le trasforma in segni parlanti, in presenze epifaniche, quasi in una serie di annunciazioni angeliche sulla necessità di un dialogo intimo fra Dio e l’uomo, di un accoglimento amorevole della presenza divina nelle fibre di carne e sangue delle creature, attuabili solo attraverso un assenso senza paura, senza viltà, simile a quello pronunciato da Maria al cospetto dell’arcangelo Gabriele. Se si impara a guardare in questo modo la quotidianità -è il messaggio del poeta-si prega in ogni momento della propria vita con l’angelo. Alla parola dell’uomo (ed in specie del poeta-sacerdos) è, infatti, dato frantumare gli errori, crepitare come una fiamma per bruciare il male, ed irrorare la terra di bene, secondo il comando dell’evangelizzazione, cioè della diffusione della buona notizia, dell’annunciazione, appunto, come più volte puntualizzato. La virulenza con la quale Stefanoni spesso adopera il verso corrisponde in modo inversamente proporzionale all’accensione del cuore, all’anelito verso l’Assoluto Bene. Gian Piero Stefanoni, Da questo mare, Gazebo, Firenze 2014 di Franca Alaimo GIAN PIERO STEFANONI Laureato in Lettere moderne ha esordito nel 1999 con la raccolta In suo corpo vivo (Arlem edizioni, Roma) vincendo nello stesso anno, per la sezione poesia in lingua italiana, il premio internazionale di Thionville (Francia) e nel 2001, per l’opera prima, il “Vincenzo Maria Rippo” del Comune di Spoleto. Nel 2008 ha pubblicato Geografia del mattino e altre poesie (Gazebo , Firenze) a cui son seguiti nel 2011 Roma delle distanze (Joker, Novi Ligure) e gli ebooks La stortura della ragione (Clepsydra, Milano) e Quaderno di Grecia (Larecherche.it, Roma). Del 2013 sempre per LaRecherche.it e in versione ebook è uscito il poemetto Da questo mare da cui prende il titolo il presente volume e dove è raccolto. Incluso in volumi antologici, suoi testi sono apparsi su diversi periodici specializzati e sono stati tradotti e pubblicati in Argentina, Malta e Spagna. Già collaboratore con “Pietraserena” e “Viaggiando in autostrada” nonché redattore della rivista di letteratura multiculturale “Caffè” e della rivista teatrale “Tempi moderni”, dal 2013 è recensore di poesia per LaRecherche.it. Tra i riconoscimenti:i premi “Via di Ripetta” e “Dario Bellezza” entrambi nel 1997 per l’inedito. Per l’attività completa: http.//gianpiero.stefanoni.literary.it |
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